martedì 30 gennaio 2024
L'esperienza della religiosa monzese, responsabile del Damien Hospital di Khulna in Bangladesh: «La vera sfida è vincere, anche con l'amore, lo stigma che il morbo di Hansen si porta dietro»
Suor Roberta Pignone impegnata accanto ai malati in Bangladesh

Suor Roberta Pignone impegnata accanto ai malati in Bangladesh - .

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«Pallabi aveva 15 anni quando sulla sua pelle sono comparsi i primi segni della malattia: noduli, infiltrazioni cutanee, gonfiore ai lobi delle orecchie, dita ad artiglio e le prime ulcere ai piedi. Quando l’hanno portata in ospedale i nervi periferici erano ormai seriamente compromessi». Suor Roberta Pignone è missionaria e medico in Bangladesh, dove dirige il Damien Hospital di Khulna, l’unica struttura specializzata nella cura dei malati di lebbra nel sud del Bangladesh, in una regione poverissima come quella del Delta del Gange, dove questa malattia continua ad affliggere moltissime persone, devastate dal morbo di Hansen e dallo stigma sociale.

Lo ha ricordato anche papa Francesco nei suoi saluti dopo la recita dell’Angelus domenica scorsa, giorno nel quale si è celebrata la Giornata mondiale dei malati di lebbra. «Incoraggio quanti sono impegnati nel soccorso e nel reinserimento sociale di persone colpite da questa malattia - ha detto il Papa rivolgendosi ai pellegrini e ai fedeli presenti in piazza San Pietro - che, pur essendo in regresso, è ancora tra le più temute e colpisce i più poveri ed emarginati». E tra questi volontari impegnati si inserisce suor Roberta Pignone.

Originaria di Monza, 52 anni, suor Roberta è diventata missionaria dell’Immacolata nel 2006, dopo la laurea in medicina, e dal 2012 porta avanti una lotta senza quartiere contro questa malattia dichiarata debellata nel 1998 dall’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms), ma presente ancora oggi in molte parti del mondo. «È la malattia dei poveri, della malnutrizione e della sporcizia», dice suor Roberta, che si ritrova ogni giorno ad affrontare nuovi casi. Persone doppiamente condannate: dalla malattia e dallo stigma. Insieme alla tubercolosi - che è l’altra principale patologia diffusa in quelle terre - è considerata come la peggiore delle maledizioni.

«Non appena Pallabi è stata portata in ospedale - racconta la missionaria - abbiamo fatto immediatamente un controllo dei contatti e abbiamo scoperto che anche la madre, la nonna, la sorella, la zia e la cugina erano state infettate. Il padre era morto qualche tempo prima e le persone della comunità locale le evitavano. Così si sono così ritrovate ad affrontare un momento particolarmente difficile». Oltre alle cure tempestive, suor Roberta e i suoi collaboratori hanno avviato con Pallabi anche un percorso di formazione professionale perché potesse rendersi autonoma economicamente. «Oggi è una sarta esperta ed è riuscita a crearsi una clientela fissa che le permette di mantenere se stessa e la famiglia. Si è anche sposata ed è felice con la sua bellissima figlia e con il marito che ha accettato la malattia. Un caso rarissimo!».

Non sempre però le cose vanno così bene, anzi. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e il governo del Bangladesh si sono dati come obiettivo “Niente più discriminazione, niente più stigma. Eliminazione della lebbra entro il 2030”, che è stato anche il tema del Congresso nazionale che si è svolto lo scorso novembre nella capitale Dacca. «Ed è con questo spirito che viviamo la Giornata mondiale contro la lebbra», dice la battagliera missionaria. Che però non nasconde le difficoltà. Racconta, ad esempio, di Monir e Salim: «Stanno soffrendo parecchio. Faccio tutto quello che posso, lotto con loro, do i farmaci necessari, ma non si vedono miglioramenti».

E riflette: «Penso alla vita di questi miei pazienti, di come passino la maggior parte del tempo qui in ospedale a combattere contro questa malattia. Salim è ricoverato con la moglie, non riesce a fare nulla da solo, e la loro bambina è qui con noi, con tanti nuovi “zii” e “zie” con cui condivide le giornate. Guardo i miei pazienti e mi faccio tante domande sulla loro situazione di vita e su cosa potremmo fare di più. A volte bisogna solo stare ad aspettare che arrivi il tempo della guarigione. Che fatica accettare tutto questo! Sembra di non essere all’altezza della situazione. Ma in fondo quello che conta è che loro si sentano amati. Anche questo aiuta a guarire».

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