giovedì 26 febbraio 2015
Cinquant’anni fa la prima Eucaristia celebrata in lingua nazionale. Fu presieduta da Paolo VI nella parrocchia romana di Ognissanti.
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«Si inaugura oggi la nuova forma della liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo». Era il 7 marzo 1965 quando, in occasione dei 25 anni della morte di san Luigi Orione, Paolo VI presiedeva la prima Messa in italiano nella parrocchia di Ognissanti a Roma. Un «avvenimento», come lo definì Montini nell’omelia, che era la traduzione nel concreto della riforma liturgica scaturita dal Vaticano II con la Costituzione Sacrosanctum Concilium. «Di fronte a quella celebrazione la gente si commosse perché vide un grande passo che la Chiesa compiva verso di loro», spiega monsignor Pierangelo Sequeri, preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. E aggiunge: «Si ebbe l’esatta percezione che la Chiesa, senza tradire la tradizione, metteva i credenti in contatto diretto con azioni e parole che sono un’anticipazione alla liturgia celeste».A cinquanta anni da quello storico evento papa Francesco presiederà sabato 7 marzo la Messa nella stessa parrocchia, mentre domani si terrà un convegno di pastorale liturgica dal titolo “Uniti nel rendimento di grazie” nel teatro accanto alla chiesa di Ognissanti. «Parlare della riforma liturgica – afferma Sequeri – vuol dire guardare al traghettamento della Chiesa che Paolo VI ha guidato non senza fatiche e difficoltà. L’idea che lo ispirava era quella di un cristianesimo che, senza perdere uno iota della sua verità e della sua profondità, entrasse nell’ottica di potersi comunicare all’uomo contemporaneo. Un uomo che, quando pensa alla Chiesa, non può avere nella mente l’immagine di una struttura che, attraverso determinate spiegazioni, gli fa capire che dentro di essa c’è un mistero. No, l’uomo deve percepire fin da subito la bellezza del mistero che, poi, può cercare di approfondire».Uno dei cardini della riforma liturgica è stato la partecipazione piena, attiva e consapevole dell’assemblea. Basta con i fedeli che erano soltanto “spettatori” muti ed estranei. E la scelta di aprirsi alle lingue nazionali andava in questa direzione. «Certo, in questo mezzo secolo, c’è stato anche un accanimento terapeutico sul versante della partecipazione – sottolinea il teologo –. Accanto a riflessioni ed esperienze proficue, si sono registrate diverse forzature. Come se la partecipazione volesse dire muoversi sempre o fare comunque qualcosa. Queste ingenuità hanno nuociuto all’importanza del concetto. Oggi è possibile affermare che è venuta a mancare una dimensione dell’actuosa participatio: è la possibilità che la liturgia crei un senso di adorazione per il mistero. Ciò significa che rientrano nella partecipazione anche il silenzio, la sosta, la quiete e addirittura la passività giusta per essere toccati da Cristo e non solo metterci le mani sopra. Il resto è una questione di animazione».Nella Sacrosanctum Concilium si fa riferimento più volte alla formazione alla liturgia. «E molto è stato fatto negli anni – sostiene Sequeri –. Il merito va prima di tutto ai sacerdoti che hanno compiuto il miracolo di aver saputo spiegare la celebrazione. Però, se non si crea un clima di incantamento all’interno della liturgia, la preparazione naufraga sul più bello. È vero che il mistero ci introduce a se stesso. Ma è nostro compito avere cura e passione perché tutto ciò avvenga. Si può avere una celebrazione di grande intensità anche se è soltanto di quaranta minuti, dove ogni parola, ogni gesto e ogni silenzio sono così al loro posto che si fanno trasparenti e mostrano il volto del Signore».La Costituzione conciliare richiama anche alla conciliazione fra «sana tradizione» e «legittimo progresso». «Una delle icone più belle che ci consegna la Chiesa – conclude il teologo – è quella della tradizione che si rinnova rimanendo fedele a se stessa. Direi che sulla liturgia l’equilibrio compiuto non ci è stato ancora donato. Per questo ritengo che ogni celebrazione debba accogliere quanto la tradizione ci consegna. Così metterei sempre, per fare qualche esempio, un’antifona in gregoriano, un canto corale e un canto popolare. In fondo una celebrazione è tenuta a mettere in luce sia il suo rapporto con la tradizione, sia la capacità di essere parlante verso gli uomini del nostro tempo».
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