martedì 22 aprile 2025
I processi avviati in 12 anni di pontificato segnano una frontiera da dove riprendere la strada dentro il “cambiamento d’epoca”. La prima domanda ora dunque è: che eredità è quella di papa Bergoglio?
Un'immagine di papa Francesco nella cattedrale di Giakarta, capitale dell'Indonesia

Un'immagine di papa Francesco nella cattedrale di Giakarta, capitale dell'Indonesia - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

I minuti, le ore, i giorni che seguono il passaggio di un Papa alla vita eterna sono sempre segnati da un’emozione acuta, mossa dal senso di filiazione che nella Chiesa lega il credente a un Papa, a qualunque Papa. In questo particolarissimo stato d’animo ci troviamo ora, sospesi tra il dolore e le domande su quel che ci attende. E trattandosi di Francesco, anche chi figlio non è – o non si sente – è accomunato agli altri (a tutti?) dal medesimo interrogativo, che è quello forse prevalente nel groviglio degli stati d’animo di questi momenti: cosa ci sta lasciando papa Francesco? Quale Chiesa ci consegna?

Siamo ancora sul piano dell’impressione e non della storia, ma è su questa eredità che merita soffermarsi: perché, dal piano ecclesiale a quello della presenza sulla scena del mondo, la “Chiesa di Francesco” per molti aspetti ha ormai acquisito nei quasi dodici anni di pontificato di Bergoglio una fisionomia dai tratti ben definiti, gran parte dei quali già ben visibili nella Evangelii gaudium, il testo fondativo del pontificato con il quale a fine 2013, nella forma dell’esortazione apostolica (un “documento di lavoro” più che un testo dottrinale), volle imprimere alla Chiesa lo slancio di «una nuova tappa evangelizzatrice marcata dalla gioia» e «indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni». Dunque l’avviamento di un processo più che la definizione di nuove parole d’ordine, per stare a un concetto tra i più caratteristici del pensiero di Francesco. Solo ora in modo compiuto si comprende quanto questa sua scelta abbia già prodotto effetti irrevocabili: possiamo forse immaginare una Chiesa capace d’ora in avanti di “fare a meno” di tutto ciò che ci ha mostrato il Papa «venuto dalla fine del mondo» per portare il Vangelo «fino agli estremi confini della terra» di oggi?

Evangelizzazione: questo, e non altro, fa la Chiesa in ogni tempo. Ora che contempliamo in uno sguardo il tempo che ci è stato donato insieme a Francesco possiamo cogliere l’essenza di un pontificato che, al dunque, è stato missionario secondo ciò di cui il mondo di oggi necessita. Può suonare “già visto”, o scontato, ma in realtà è di questo che il Papa ci ha parlato, in sostanza, lungo questi anni. Merita averlo chiaro mentre esploriamo la direzione che ha dato alla barca di Pietro dentro un «cambiamento d’epoca» fattosi imprevedibilmente tempestoso.

Provando a mettere a fuoco l’eredità di Francesco, con lo spirito di chi raccoglie una consegna, si scorge dunque anzitutto lo slancio fiducioso verso l’umanità del nostro tempo, un’apertura cordiale verso ogni espressione della vita e della condizione umana, partecipe dei suoi limiti, accogliente verso i suoi errori, impegnata a condividere assai più che a giudicare, disposta a lasciarsi interrogare prima che ansiosa di dare risposte. È questo che il Papa ha riassunto nell’espressione che forse più di ogni altra sintetizza il pontificato, “la Chiesa in uscita”, divenuta quasi proverbiale e che ora dovremmo liberare da una certa abitudine per coglierne la pertinenza a un tempo come il nostro in costante e inquieta evoluzione, bisognoso per questo di una nuova sintonia in chi vuole prendersene cura. In Evangelii gaudium Francesco descrive questo impegno con parole che, oggi, mostrano come in una fotografia il profilo della “sua” Chiesa: «Oggi, in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo».

Per rilanciare oggi il mandato missionario della Chiesa Francesco ci ha invitati ogni giorno a tenere ben aperto il Vangelo ricordando instancabilmente la vocazione del cristiano ad “andare”, uscire, incontrare, e dunque a essere sempre pronto a mettersi di fronte alla realtà – di ogni persona, della società, del mondo – per come si offre oggi. L’ha fatto a partire non da una teoria, per quanto ben congegnata, ma da Cristo stesso. È toccante in questo momento ricordare il “magistero di Santa Marta”, le decine di straordinarie omelie che dal 18 novembre 2013 al 17 maggio 2020 a cadenza pressoché quotidiana ha pronunciato a braccio nella cappella di Santa Marta, cuore di quella che elesse da subito come sua residenza – segno e misura di una Chiesa che resta tra gli uomini “per la sua salute” – incontrando migliaia di persone e svolgendo una catechesi dell’esempio e della Parola.

A chi ebbe la fortuna di partecipare a quelle celebrazioni lasciò l’impressione indelebile di un uomo di profonda vita interiore, con una predicazione che sgorgava dalla preghiera contemplativa davanti alle scene evangeliche fatte parlare con una freschezza e una originalità che le fecero apparire come ancora mai sentite, non così. In questa visione è tutto coerente: la Chiesa in uscita è sempre nuova e vive della luce che si proietta dal Vangelo, compreso come una parola detta oggi alla nostra vita di oggi, un tesoro da comprendere e condividere, cogliendone l’impulso personalissimo che Francesco sapeva conferirgli. La vita cristiana è esigente e ha conseguenze precise per ciascuno di noi, ed è sugli impegni della vocazione battesimale che dobbiamo misurarci ogni giorno. Nell’insegnamento di papa Bergoglio questa verità cristallina è passata in modo più evidente nelle omelie di Santa Marta e nei suoi Angelus festivi spesi sempre per spiegare la Parola di Dio della Messa festiva, come un parroco, che alla fine congeda i fedeli augurandogli “buon pranzo”.

Due ci sembrano gli aspetti che meglio esemplificano, con quella concretezza che gli era così congeniale, questo approccio alla fede intesa come acquisizione di responsabilità e percorso di crescita, senza mai accontentarsi: il suggerimento della lettura quotidiana di una pagina di Vangelo, con la raccomandazione di portarsene con sé una copia tascabile per averlo sempre vicino, apostoli nella quotidianità di tutti; e la meravigliosa consuetudine di concludere quasi ogni sua omelia lungo tutti questi anni con una serie di domande personalissime per un esame di coscienza senza sconti. Un dettaglio decisivo per indicare come la Chiesa non debba chiudersi nel recinto delle proprie convinzioni ma mettersi sempre in discussione davanti al solo paradigma che vale per farla crescere come la pianta dal seme evangelico: il legame profondo e personale col Signore della vita e della storia, amico e fratello, mai giudice, perdutamente innamorato di ciascuno.

La Chiesa che prende consistenza da questo sguardo alla vita di tutti – credenti e non – è testimone di misericordia, perché questa è la sua natura profonda. «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre»: sono le parole che aprono la bolla di indizione del Giubileo che tra 2015 e 2016 Francesco volle dedicare proprio alla misericordia, un tema già caro a Giovanni Paolo II e poi ricorrente nell’insegnamento di Francesco per la persuasione che di questo volto la Chiesa debba essere riflesso fedele.
Anche per questo altro aspetto decisivo della sua ecclesiologia Francesco mostrò appena eletto di avere le idee molto chiare: «Il volto di Dio è quello di un padre misericordioso, che sempre ha pazienza – disse nel suo primo Angelus, il 17 marzo 2013 –. Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che lui ha con ciascuno di noi? Quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza, pazienza con noi, ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a lui con il cuore contrito».

Una Chiesa a braccia aperte come il padre misericordioso della parabola forse più commentata dal Papa, come se non si stancasse di contemplarla. L’umanità davanti alla quale si trova la Chiesa che la cerca fin nelle sue «periferie esistenziali» più remote è evidente che vada accolta con tutte le sue contraddizioni. Oggi vanno dunque smessi i panni dell’istituzione giudicante, per assumere la forma – altra immagine fondamentale nel magistero bergogliano – dell’«ospedale da campo», un pronto soccorso che si prende cura di tutte le ferite dei nostri contemporanei con lo slancio senza calcoli e pregiudizi del Samaritano. La scoperta che è questo l’amore smisurato che muove il cuore del Padre – che «mai si stanca di perdonare» – verso l’umanità porta a cercare un punto di incontro con chiunque, a costruire «ponti e non muri», ad «avviare processi» più che occupare spazi. Quella che ha cresciuto il Papa in questi anni è una Chiesa “a porte aperte” e in ascolto, che esce dalle sue sicurezze per cercare la strada di un nuovo annuncio (perché è sempre lì che si torna, con Francesco: come portare Cristo agli uomini di oggi?).

Di qui nasce inevitabilmente il dinamismo che ha generato anche il percorso sinodale, quel “cammino” condiviso dentro la Chiesa che impara a mettersi in ascolto di tutti, sapendo che dovunque vada troverà Cristo che “è già lì”, la precede, dovunque. L’attitudine ad ascoltare assai più che “farsi ascoltare” mostra un rovesciamento della prospettiva rispetto a un’abitudine autoreferenziale a offrire risposte che non intercettano più le domande del mondo. Non si tratta dunque di “adattarsi” a quel che la società propone ma aprire le finestre, andare incontro, rompendo con l’idea che «si è sempre fatto così». Una Chiesa in movimento continuo, che non può che avere a cuore chi è scartato dalle logiche dominanti del mondo proprio perché in ogni persona scorge Cristo che la attende.

Una Chiesa tra la gente e per la gente, di popolo, che non sente più l’ossessione di animare strutture, proporre attività, organizzare eventi, ma che “viaggia leggera”, libera, coraggiosa, creativa, capace di sognare il suo futuro, che avverte la bruciante necessità di stare al fianco dell’umanità che soffre di innumerevoli e spesso invisibili ferite.
È questa la Chiesa che ci lascia Francesco: per strada, consapevole che è Gesù che continua a inviarla, e che dall’incontro quotidiano con lui vivo e presente sa guardare dentro le tenebre in cui sembrano muoversi tanti, e forse anche ciascuno di noi: «Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte – disse con parole memorabili ai vescovi brasiliani durante la Gmg di Rio, nel 2013 –. Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada». È il viaggio che Francesco ci ha insegnato ad affrontare. Tocca a noi, ora, saperlo proseguire.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI