venerdì 19 maggio 2023
Da Mimmo Muolo, vaticanista di Avvenire, un ritratto aggiornato dell’uomo Jospeh Ratzinger, del Pontefice e del Papa emerito
Benedetto XVI

Benedetto XVI - Archivio Avvenire

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Il 31 dicembre 2022, con la morte del primo Papa emerito dell’epoca moderna, si è chiusa una pagina importante di storia, non solo della Chiesa. Ma si è aperto anche un dopo tutto da scrivere. Nel volume “Il Papa del coraggio e della fede”. Un profilo di Benedetto XVI. (Edizioni Àncora, 192 pagine, euro 18,50), Mimmo Muolo, vaticanista di Avvenire ci offre un ritratto aggiornato dell’uomo Joseph Ratzinger, del Pontefice Benedetto XVI e del Papa emerito, prendendo come lente di ingrandimento proprio le circostanze della morte e i quasi dieci anni di “emeritato”. Ne emerge la conferma di ciò che già la storica rinuncia del 2013 aveva fatto intuire. E cioè che tra il Papa percepito dai media e quello reale ci fosse una grande differenza. Oggi abbiamo finalmente tutti gli strumenti per guardare a questa grande figura senza le diottrie ideologiche lo avevano imprigionato in certi cliché e per fare tesoro del suo insegnamento di Papa del coraggio e della fede. Tratto dal libro, pubblichiamo un ampio estratto del primo capitolo.

Non si legge un libro partendo dall’ultima pagina. Ma il “libro” della vita terrena di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI fa eccezione. Lo si comprende certamente meglio iniziando dalla fine, da quel 31 dicembre 2022, data della sua morte e, soprattutto, dai quasi dieci anni che l’hanno preceduta, cioè il periodo che qualcuno ha definito del “pontificato emerito”. Nella vicenda personale di quest’uomo straordinario, del resto, le date hanno sempre avuto un ruolo importante. A cominciare da quella della sua nascita. Era il 16 aprile 1927, sabato santo. E sabato era anche il 31 dicembre. Sabato, il giorno dell’attesa. Se solo ripensiamo alle splendide parole sulla propria preparazione alla morte, non possiamo non riflettere sul fatto che Joseph Ratzinger abbia vissuto l’intera sua esistenza come un avvento. Con i versi di Eugenio Montale si potrebbe dire che Benedetto XVI abbia sempre tenuto a ricordarci come su tutte le cose ci sia scritto “più in là”. E il suo “più in là” è stata l’attesa dell’incontro definitivo con Cristo. Quell’eternità di cui un giorno aveva scritto: «Non è un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. L’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. La vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia».

La vita intera come un sabato. Nell’attesa della domenica senza fine. Non è forse questo che ci dovrebbe connotare come cristiani? Il teologo Ratzinger e il papa Benedetto XVI avevano a lungo riflettuto su questa verità. Basti riandare alla sua catechesi sul Sabato Santo, il 19 marzo 2008: «Il Sabato Santo è segnato da un profondo silenzio. Le Chiese sono spoglie e non sono previste particolari liturgie. Mentre attendono il grande evento della Risurrezione, i credenti perseverano con Maria nell’attesa pregando e meditando. C’è bisogno in effetti di un giorno di silenzio, per meditare sulla realtà della vita umana, sulle forze del male e sulla grande forza del bene scaturita dalla Passione e dalla Risurrezione del Signore». Ma soprattutto è utile riprendere il discorso sulla Sindone, “icona del Sabato Santo”, pronunciato a Torino, il 2 maggio 2010, in occasione dell’ostensione del lino che secondo la tradizione avrebbe avvolto il corpo di Cristo dopo la morte. Ecco, quel discorso andrebbe riletto ora, in parallelo con il racconto delle ultime ore di Benedetto XVI, così come le abbiamo apprese dal il suo segretario personale, l’arcivescovo Georg Gänswein e, in definitiva, con i momenti essenziali della sua vita e del suo pontificato.

Impressionano soprattutto i passaggi in cui il Papa parlava del Sabato Santo come del “giorno del nascondimento di Dio”. E quando sottolinea che questo nascondimento «fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più». «Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki – spiegava papa Ratzinger -, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti». Non si ritrovano qui gli echi della sua costante predicazione (ci sia consentito usare questo termine in una accezione più ampia, comprensiva anche delle sue opere teologiche) contro le grandi ideologie del secolo passato e la dittatura del relativismo in quello presente? E tuttavia, ricordava il Pontefice teologo, la morte di Gesù di Nazaret è «fonte di consolazione e di speranza» perché nel «Sabato Santo che è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione» Cristo «ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte» Questa è “la solidarietà più radicale”. «In quel tempo-oltre-il-tempo Gesù Cristo è disceso agli inferi (…), dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto», cioè «ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui». E dunque «è successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori (…). Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli». Questo era per il Papa nato e morto di sabato, “il mistero del Sabato Santo”. «Proprio dal buio della morte del Figlio di Dio – affermava ancora –, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione».

Proviamo adesso a rileggere il racconto delle ultime ore di vita di Joseph Ratzinger. Quell’ultimo sabato di attesa, terminato alle 9.34 del mattino, momento ufficiale della sua morte. Un tempo scandito dalla preghiera e da quella straordinaria dichiarazione d’amore - “Signore, ti amo” - che appare come la summa in tre semplicissime parole della sua spiritualità, della sua fede e anche, perché no, della sua teologia cristocentrica, fin da quando, giovane professore, aveva partecipato al Concilio Vaticano II al seguito del cardinale Frings, lavorando soprattutto sulla costituzione apostolica Dei Verbum.

Nel cuore della notte, alle tre – l’ora più buia, l’ora degli inferi, potremmo dire, ma ci piace immaginare anche quella che precede di poco la Risurrezione, cioè l’irruzione dell’amore e della vita divina nelle tenebre umane – egli pronuncia quelle tre parole ascoltate da uno degli infermieri che faceva la guardia. “Signore, ti amo”. L’infermiere lo dice a don Georg la mattina del sabato, non appena questi arriva nella camera da letto del Papa morente. Allora il segretario particolare di Benedetto XVI riferisce di aver pregato insieme con Ratzinger un’ultima volta. «Anche la mattina del decesso ho detto al Santo Padre: “Facciamo come ieri: io prego ad alta voce e lei si unisce spiritualmente”. Non era infatti più possibile che potesse pregare ad alta voce, era proprio affannato. Lui ha soltanto aperto un po’ gli occhi - aveva capito la domanda - e ha fatto segno di sì con la testa».

Preghiera e attesa. «Verso le 8.00 – continua don Georg – iniziava a respirare in maniera sempre più affannata. C’erano due medici, il dottor Polisca e un rianimatore, e mi hanno detto: Temiamo che adesso verrà il momento in cui dovrà sostenere l’ultima sua lotta in terra. Ho chiamato le “memores” (le quattro consacrate laiche di Comunione e Liberazione, che hanno accudito la casa del Papa e poi il Monastero Mater Ecclesiae, dove risiedeva da emerito, ndr) e anche suor Brigida, ho detto loro di venire perché si era arrivati all’agonia. In quel momento era lucido. Avevo già preparato prima le preghiere di accompagnamento per il moribondo, e abbiamo pregato per circa 15 minuti, tutti insieme mentre Benedetto XVI respirava sempre più affannato. Allora ho guardato uno dei dottori e ho chiesto: “Ma, è entrato in agonia?”. Mi ha detto: “Sì, è iniziata ma non sappiamo quando tempo dura”. Alle 9.34 ha dato l’ultimo respiro>.

Morire pregando, con il nome del Risorto sulle labbra. Anche in questo caso si può citare – a confronto – uno scritto dell’ultimo periodo di vita del Papa emerito. Giusto un anno prima della sua dipartita egli era stato accusato – da un rapporto sui casi di pedofilia nella sua diocesi di Monaco e Frisinga – di aver coperto alcuni preti pedofili quando, dal 1977 al 1982, era stato arcivescovo di quella Chiesa particolare (ne parleremo diffusamente più avanti). Nella lettera scritta per chiarire la sua estraneità ai fatti Benedetto XVI aveva scritto: «Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte. In proposito mi ritorna di continuo in mente quello che Giovanni racconta all’inizio dell’Apocalisse: egli vede il Figlio dell’uomo in tutta la sua grandezza e cade ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di lui la destra, gli dice: “Non temere! Sono io...” (cfr. Ap 1,12-17)».

Dobbiamo immaginare, dunque, che con tali sentimenti Egli sia andato incontro al Signore. E questo disvela un Joseph Ratzinger completamente diverso da quello che per decenni hanno dipinto i mass media di tutto il mondo. Le circostanze della morte, il periodo del suo “emeritato” ci hanno fatto comprendere sempre più e sempre meglio la distanza tra il Papa reale e quello percepito, ma soprattutto hanno funzionato da lente di ingrandimento per permetterci di comprendere a pieno la sua personalità.

Da questo punto di vista un’altra coincidenza di date rafforza la sensazione che per guardare compiutamente a Benedetto XVI occorra partire dalla fine. La data della sua morte coincide, infatti, come ha ricordato l’arcivescovo Rino Fisichella, in un’intervista ad Avvenire, con la memoria liturgica di san Silvestro, il Papa del primo Concilio di Nicea, in cui venne riaffermata la divinità di Cristo contro l’eresia di Ario che invece la negava. Per chi crede che il linguaggio del Cielo possa esprimersi anche con simili coincidenze è un ulteriore segnale. Il Papa cristocentrico che muore nel giorno in cui si ricorda un suo predecessore santo dalla forte valenza cristologica. Un tassello che entra di diritto nel grande mosaico della vita e dell’opera ratzingeriana, accanto ad altri importanti elementi come il suo già citato lavoro al Concilio sulla Dei Verbum, la contestata (ma non compresa fino in fondo) Dominus Iesus, i tre libri su Gesù di Nazareth, pubblicati durante il Pontificato, ma esclusi – per sua espressa volontà – dal magistero papale, e da ultimo quell’affidarsi all’amore di Cristo nella suprema ora della morte. «Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita – e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo», si legge in uno dei passaggi più intensi del testamento spirituale, scritto fin dal 29 agosto 2006 (quindi un anno e mezzo dopo la rinuncia) e pubblicato il giorno della sua morte. E papa Francesco, nell’omelia dei funerali lo ha chiamato “fedele amico dello Sposo” (...).

La copertina del libro di Mimmo Muolo

La copertina del libro di Mimmo Muolo - Edizioni Àncora

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