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Stefania Falasca con il Papa durante l'intervista realizzata per Avvenire nel 2016 - Foto Paolo Valente
Le parole sono diventate tutte inutili quando da Casa Santa Marta, ieri mattina, lunedì di Pasqua, ci hanno annunciato la morte di papa Francesco. È venuto a mancare il padre e siamo diventati orfani nel giorno più importante, centrale della storia della salvezza, il giorno che celebra la «tomba vuota», l’apice del mistero pasquale, il segno del riscatto, della risurrezione.
«Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo» (1 Cor 4,15): è proprio infatti parlando di questa paternità di ordine soprannaturale che san Paolo poteva dire ai Corinti di essere loro padre, e così è per chi chiamiamo “Papa”, che significa “padre”. Un padre che viene a mancare in questo giorno centrale della historia salutis significa molto nell’economia della storia di grazia, non solo per la Chiesa. E al tempo stesso, di colpo, ci porta con altezza lacerante a guardare quali effettivamente siano le esigenze più profonde di questa travagliata cristianità. Perché un Papa, un padre, che ci manca così, dalla morte che lui mai ha temuto entra in una storia inscrivibile di anime e al tempo stesso ci introduce in quelle riflessioni segrete sui segni della Provvidenza che non siamo sempre disposti a riconoscere e capire.
Papa Francesco come un padre è entrato nelle carne dei giorni di molti e nella carne del mondo, facendo suo il dramma più profondo dei tempi. Lo ha vissuto intimamente come lo ha vissuto da sempre con una preghiera altissima, costante, che ha trasformato la sua stessa figura e la sua stessa ultima malattia. Usque ad finem, come abbiamo visto appena qualche giorno fa quando, ancora convalescente dall’ultimo lungo ricovero, si è portato nella Rotonda del carcere di Regina Coeli, perché «il carcere è una basilica», come ha affermato, e come già nel 2013 aveva fatto per il Giovedì Santo della sua prima Pasqua da Pontefice.
È stato ed è, per questo, il segno di chi vede oltre e lontano, un segno di conforto, forse il solo in questo modo lacerato, convulso, che brucia le fedi, privilegia gli odi e le armi, esalta la violenza. Testimone di una storia che attraversa i mali e le guerre, tutta interiore e tutta indirizzata verso l’alto e a vivere nel basso e con le persone, in mezzo alla gente, sempre, nelle sue gioie e nelle sue sofferenze, che fruga nelle anime e le chiama con la parola del Vangelo. Usque ad finem, come anche nell’ultimo messaggio sulla pace, pronunciato con un filo di voce, nella domenica di Pasqua. È proprio l’esercizio di questa paternità che non si può dimenticare. «La coscienza d’essere fondati sulla paterna misericordia del Signore, che ci rende figli, ci fonda anche come padri – aveva più volte confessato – è la memoria della grazia, la memoria di cui si parla nel Deuteronomio, la memoria delle opere di Dio che sono alla base dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. È questa memoria che mi fa figlio che mi fa essere anche padre».
In questi anni da Successore di Pietro abbiamo visto il dispiegarsi di come una “paternità filiale” abbia coinciso con il proprium del suo ministero. Come padre, infatti, egli è stato testimone e custode della memoria dei tesori della grazia della fede, come padre ha presieduto «alla carità universale». Paternità e memoria: «La memoria c’invita a recuperare una storia di grazia che, data la nostra condizione di peccatori, è sempre fatta di grazie di misericordia», nella disposizione radicalmente generativa del padre che è quella di chi pensa al bene dei figli e alla sopravvivenza della famiglia.
Del resto, la prima volta che feci la sua conoscenza nel 2002, da cardinale si presentò con un semplice: «Sono padre Bergoglio». Era al telefono, dissi a mio marito che aveva chiamato “un certo padre Bergoglio” e gli feci notare che aveva lo stesso nome del cardinale di Buenos Aires... Mi rispose: «È il cardinale di Buenos Aires». La sera stessa della sua elezione alla Cattedra di Pietro, quando ci chiamò a casa, gli chiesi come avrei dovuto adesso chiamarlo da quel momento in poi: «Come sempre».
Da arcivescovo diceva che nelle parabole evangeliche i padri di famiglia sono caratterizzati in questo modo: sono coloro che sanno sintetizzare il nuovo con il vecchio e sono portatori di un’eredità inalienabile, senza impadronirsene, perché sia feconda. Un padre è quello che non smette mai di vedere nel germoglio di grano, pur indebolito da tanta zizzania, la speranza della crescita, e per questo scende in strada ad aspettare il figlio che l’ha abbandonato, come riferisce Luca nella sua parabola sulla misericordia. «Perché Dio è Padre anche di coloro che arrivano all’undicesima ora».
Anche il Conclave che lo elesse dodici anni fa aveva voluto un padre, un padre nutrito di umana sapienza e di forti virtù evangeliche, aveva voluto l’uomo di misericordia esperto dei dolori del mondo e delle ferite e dei traumi del clero di oggi, delle esigenze dell’immensa moltitudine dei derelitti e degli emarginati che vivono fuori dall’opulenza, aveva voluto il sacerdote che crede nella virtù della preghiera, capace di sfidare con l’amore le paure di un mondo volto a implodere. L’essere padre coincide così anche con l’essere quell’autentico vir ecclesiasticus di cui parla Origine, «come uomo di Chiesa e nella Chiesa», che tiene a «pensare sempre e non solamente con la Chiesa, ma nella Chiesa». «Chiediamo allo Spirito Santo che ci ricordi sempre, sempre, che noi abbiamo un Padre; e a questa civiltà, che ha un grande senso di orfanezza, dia la grazia di ritrovare il Padre, che dà senso a tutta la vita e fa che gli uomini siano una famiglia» come disse in un omelia a Santa Marta nel maggio del 2020 che racchiude il senso di questo tempo.
Ricordo la prima volta che venne a casa, nella nostra famiglia, lungo la strada Merulana che porta alla Salus Populi Romani, dove voleva riposare. Ricordo la sua figura magrissima in nigris, di semplice prete. Si soffermò a guardare le pareti bianche di casa senza nessun ornamento, disse che gli piacevano le pareti spoglie e bianche perché «il bianco racchiude tutti i colori». Ricordo quando appena dopo l’elezione volle rifirmare a distanza di cinquant’anni la sua confessione di quel giorno di primavera del 21 settembre, che conservo: «Credo nella mia storia, che è stata trapassata dallo sguardo di amore di Dio e, nel giorno di primavera, 21 settembre, mi ha portato all’incontro per invitarmi a seguirlo». Ricordo quando nel 2007, dopo l’incontro ad Aparecida, riprendendosi da una dolorosa sciatalgia, mi rilasciò un’intervista che è poi il programma del suo pontificato nel solco del Concilio. Dopo l’elezione, esprimendo il senso della sua missione apostolica, mi disse: «Non me ne andrò da qui finché non si sarà arrivati a un punto in cui sarà impossibile tornare indietro». Ricordo uno per uno i viaggi inimmaginabili nei quali in questi dodici anni ci ha portato «per la pace nel mondo e la fratellanza tra i popoli».
Nella mistica del suo vivere è stato chiamato a ritornare alla casa del Padre nel giorno centrale della proclamazione cristiana, quello in cui tutti e quattro i Vangeli descrivono le circostanze intorno alla scoperta della tomba vuota e attestano la Risurrezione. La mattina del giorno dopo la domenica di Pasqua, nel Giubileo della speranza. Usque ad finem: il padre Francesco e «la tomba vuota» non avranno fine.