domenica 22 marzo 2020
Il presidente della Comece, che riunisce gli episcopati dell’Unione, è in quarantena: l’unica cosa che ha messo tutti d’accordo è stata la chiusura delle frontiere ai cittadini non della Ue
Jean-Claude Holleric

Jean-Claude Holleric - Sala Stampa Vaticana

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«Stiamo tornando a fare i conti con la morte, e mentre riflettiamo vediamo un’Europa che prova a reagire ma che mostra la sua crisi di solidarietà. Intanto, dai religiosi che muoiono a causa del contagio impariamo con ammirazione e gratitudine cosa vuol dire seguire l’esempio di Gesù».

Costretto alla quarantena perché un collaboratore dell’arcidiocesi del Granducato è risultato positivo al coronavirus, il cardinale Jean-Claude Hollerich, gesuita, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece (Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione Europea) osserva il continente con lo sguardo di pastore e l’orizzonte di chi deve analizzare il processo politico dell’Unione e mantenere un dialogo con i vertici dell’Ue.

Che cosa impara anche un cardinale dai giorni in quarantena?

In queste settimane per tutti così difficili, la morte è tornata nel nostro orizzonte. Ci ritroviamo chiusi nelle nostre case, nelle nostre stanze, da cui non possiamo uscire, e persone a noi care muoiono. La morte è tornata nella nostra quotidianità, e con essa le domande sul senso della vita. A lungo abbiamo considerato che “dio” fosse il consumare, l’affannarsi per cercare e ottenere ciò che dona piacere. In molti Paesi, come il mio Lussemburgo, si è data per scontata l’eternità di una certa idea di “benessere”. E così che abbiamo occultato la certezza della “fine”.


Se noi nelle nostre case abbiamo paura, mi domando come deve sentirsi chi sta nei campi profughi, chi non ha niente. Che cosa succederà quando il virus arriverà a loro?

La morte porta con sé l’idea della paura. Un sentimento che può disorientare e paralizzare. Qual è la risposta cristiana?

Per noi cristiani il senso della vita è Cristo e non dobbiamo avere paura. E davanti alla paura abbiamo il dovere anche dei piccoli gesti. Penso a tanti anziani soli, a quanti si trovano nelle case di cura e non possono uscire, non possono ricevere visite. Io stesso non posso andare a trovare mia madre. Anche in questo ci è da esempio papa Francesco che ci incoraggia a compiere piccoli gesti ma di vitale importanza per tanti. Mai come in questo tempo una telefonata a chi è solo o lontano è di grande conforto e vicinanza. Anche così si aiuta a vincere la paura, cercando le persone e mostrando che gli vogliamo bene.

La nostra è l’epoca del “fare”. Ora ci viene chiesto, per il bene di tutti, di “non fare”. Come si può essere utili alla comunità stando chiusi in casa?

Dobbiamo tornare alla parola “essere”, e non più solo al “fare”. Per un cristiano c’è una modalità precisa per esprimere e coltivare il proprio “essere”: il primo compito è pregare e per il tramite delle nostre preghiere “essere” uniti al Cristo morto e risorto e dare perciò speranza e coraggio agli altri, anche attraverso una telefonata perché nessuno si senta solo e non amato.

Ad altri invece è richiesto un sacrificio, per il bene comune, che può costare la vita.

A questo proposito il mio primo pensiero va a quanti, cristiani e non cristiani, stanno lavorando senza risparmiarsi testimoniando un impegno meraviglioso per le nostre comunità. Ma per la maggior parte delle persone la più grande sfida non è sull’agire, questo deve farlo chi è preposto, a noi è domandato invece di stare fuori dall’azione. E per chi è cristiano la preghiera resta la strada maestra.

Che ne sarà dell’Europa e delle sue radici dopo l’esperienza del coronavirus?

L’Europa, penso a quella delle cancellerie e non a quella delle persone, mi rattrista. Perché l’unica cosa che ha messo d’accordo tutti è stata la chiusura delle frontiere ai cittadini che non risiedono nell’Ue. Capisco che si debba fare, che può essere necessario, ma non meno necessaria è la solidarietà tra gli Stati.

Non ne vede abbastanza?

Osservo la Cina aiutare l’Italia, singoli Paesi che sostengono altri singoli Paesi, ma gli Stati dell’Europa unita non si mobilitano manifestando nei fatti solidarietà verso l’Italia e le altre nazioni più colpite. Quando questa crisi sarà passata dovremo parlare più di questo e stabilire meccanismi di solidarietà vera per i popoli europei.

Qual è il simbolo degli egoismi del Vecchio Continente?

Ci rifletto spesso: noi nelle nostre case, nei nostri appartamenti nelle nostre camere, abbiamo paura, ci sentiamo perduti, e mi domando allora come deve sentirsi chi sta nei campi profughi, chi non ha niente, chi è vittima dei trafficanti, chi non ha medicine neanche per l’influenza di stagione. Come faranno, cosa succederà quando il virus arriverà a loro? Penso ai più poveri, ai più vulnerabili, e penso che la Chiesa in questo momento deve alzare la voce, perché i poveri e gli emarginati non vengano dimenticati.

Nelle nostre città vivono persone in miseria, gli “scartati”, famiglie provate da anni di crisi economica e che adesso rischiano mesi persino peggiori. A questo si aggiunge il dramma di chi perde una persona cara senza neanche la consolazione dell’ultimo saluto. La Chiesa che cosa può dire loro?

L’esempio più bello e forte arriva da papa Francesco, che ci mostra sempre la testimonianza del Vangelo, da cristiano vero servitore di Gesù. Le sue parole ci danno coraggio, ci svegliano, soprattutto in tempi di crisi, quando c’è la malattia e quando la miseria. E sprona noi uomini di Chiesa ad alzarci dalle nostre poltrone. Penso ad esempio ai sacerdoti che stanno morendo. Vedo le loro immagini e leggo le loro storie. Noi qui abbiamo una suora in gravi condizioni e certo il contagio non si fermerà. Questi uomini e donne di Dio hanno veramente seguito la strada di Gesù. Sono un esempio per tutti noi.

Come immagina il ritorno alla normalità?

Il nostro modo di vivere sta cambiando ma dovrà modificarsi profondamente. Siamo stati una società globale, ma ora ci interessiamo tutti a cosa accade al nostro villaggio, alla nostra città, al nostro Paese. Ecco, dobbiamo riflettere nella direzione di una cultura realmente “glo-cale”, dove ciò che è locale e ciò che è globale devono, non semplicemente “possono”, vivere insieme. E questo dovrà comportare inevitabilmente una nuova organizzazione per le nostre società, dove l’elemento locale ritrovi di nuovo importanza, ma sempre in una dimensione complessiva. Dobbiamo riflettere nella direzione di una cultura realmente glocale, dove ciò che è locale e ciò che è globale devono, non semplicemente possono, vivere insieme Se noi nelle nostre case abbiamo paura, mi domando come deve sentirsi chi sta nei campi profughi, chi non ha niente. Che cosa succederà quando il virus arriverà a loro? L’INTERVISTA A destra, un confine “chiuso” dell’Unione Europea / Ansa

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