Giulietti: i giovani di Tor Vergata cercano la spiritualità ma non sanno come

Una generazione che va rialfabetizzata al cristianesimo mostra di desiderare una proposta di fede. E una compagnia alla sua vita. Parla l’arcivescovo di Lucca, veterano dei raduni giovanili
August 6, 2025
Giulietti: i giovani di Tor Vergata cercano la spiritualità ma non sanno come
- | Una pellegrina italiana a Tor Vergata per il Giubileo dei Giovani
Allora e oggi. Oggi e allora. La riflessione ecclesiale su Tor Vergata 2025 è spesso ispirata in questi giorni dal confronto con con il 2000, anche per l’appartenenza generazionale di chi analizza l’evento dei giorni scorsi. Ma i per giovani che ne sono stati protagonisti la Tor Vergata del Giubileo della Speranza è e resterà unica, un cerchio rosso sul calendario della vita, un punto di svolta. è da qui che anche i “reduci” di 25 anni fa dovrebbero partire: ne è persuaso uno che allora era già responsabile regionale della Pastorale giovanile, della quale poi è stato direttore nazionale, e che si è fatto quasi tutte le Giornate mondiali. Monsignor Paolo Giulietti, 61 anni, ora arcivescovo di Lucca, è presidente della Commissione episcopale che si occupa di giovani, oltre che di famiglia e vita. A Roma e Tor Vergata non poteva che essere in mezzo ai giovani della sua diocesi, come sempre. E i suoi appunti interiori sono un flusso di vita. «I raduni giovanili – dice – sono considerate parentesi in cui la Chiesa investe sui giovani in maniera importante. Al ritorno a casa problema più che dei giovani è della Chiesa: deve saper continuare quell’investimento mettendo i giovani al centro di dinamiche educative e pastorali in grado di aiutarli a dare continuità a quella esperienza».
Lei ha visto praticamente tutti i raduni giovanili degli quarant’anni. Qual è stata la novità di questo Giubileo?
Noi che 25 anni fa eravamo lì abbiamo colto molte differenze importanti e a diversi livelli. Il mondo non è più quello, ma sono anzitutto i giovani a essere molto diversi. A Tor Vergata ho visto anche tanti giovanissimi. Oggi è molto più importante trovarsi insieme, celebrare con tanti coetanei, una cosa sempre più rara: tornati nell’ordinario ci si ritrova in pochi, isolati, a vivere in comunità spesso non esaltanti.
Che legame si è creato tra i giovani e Leone?
Il Papa gli ha dato messaggi di grande fiducia e incoraggiamento, affrontandoli con molto realismo, facendosi carico delle loro fragilità e di una diffusa autopercezione di inadeguatezza ai compiti che gli si chiedono. Oggi, in maniera più marcata rispetto al Duemila, la ricerca di spiritualità caratterizza un mondo giovanile molto confuso rispetto alle vie istituzionali ma altrettanto aperto alla dimensione interiore. La veglia di sabato sera in questo è stata esemplare: essenziale per contenuti, ha fatto risaltare l’adorazione silenziosa, che ha colpito molto questi ragazzi, li ha proprio molto “presi”. C’è stata la capacità di intercettare il bisogno di un’esperienza spirituale forte e di una relazione vera e profonda con il Signore. Questa può essere la cifra della continuità: essere capaci di offrire ai ragazzi opportunità in cui questo loro desiderio trova la possibilità di esprimersi.
Papa Leone XIV a Tor Vergata - Ansa
Papa Leone XIV a Tor Vergata - Ansa
Che tipo di proposte ha senso fare nelle parrocchie per dare spazio alla ricerca dei ragazzi?
Anzitutto servono celebrazioni che sia attente a loro. Girando come vescovo noto che le nostre liturgie non sono attente alla presenza dei giovani , e non penso agli aspetti coreografici ma alla difficoltà di fare spazio a una dimensione contemplativa della partecipazione. Credo che il ritorno a certe forme antiche si spieghi anche con una certa delusione per una liturgia che spiritualmente dà poco. Le nostre celebrazioni devono essere più ricche per accompagnare in maniera profonda all’incontro con il mistero pasquale del Signore. Questi ragazzi vogliono pregare e non lo sanno fare, sono una generazione che non ha avuto la nostra alfabetizzazione religiosa. Molti ragazzi sono proprio digiuni, sentono un bisogno ma non hanno i codici per interpretarlo. Vanno rialfabetizzate la preghiera, la spiritualità, l’interiorità. Alle volte i ragazzi prendono strade parallele per rispondere a questa sete, la Chiesa è un po’ lenta a coglierlo. Ma se non c’è questo fondamento anche il resto – penso all’impegno sociale – non cresce bene.
Molti dicono che ora bisogna ascoltare i giovani. Ma in concreto cosa vuol dire?
Anzitutto bisogna starci in mezzo, questo è fondamentale. A Roma mi sono reso conto ancora una volta che la mia presenza in mezzo a loro significa più di quello che gli ho detto. Chiediamoci se stiamo davvero con loro o pensiamo che basti organizzare qualche attività. Li convochiamo per fare cose, ma la condivisione della loro vita è un’altra cosa. Questo vale in tutti gli ambienti educativi, a cominciare dalla famiglia. Oggi c’è molta solitudine tra i giovani, e quando trovano un adulto che sta con loro gli si “attaccano”, si mostrano disponibili a una relazione profonda.
Poi c’è l’ascolto...
...che non è solo farli parlare ma percepire quello che vivono, le loro fatiche, le fragilità, ma anche le loro qualità, che si percepiscono solo standoci insieme. Per i ragazzi alcuni momenti sono più significativi di altri, ed è lì che si apre una disponibilità ad aprirsi. Bisogna ascoltare quel che hanno da dire, chiedere quello che pensano, il che però non vuol dire essere sempre d’accordo, o che dicano sempre cose sensate. Farli parlare è importante, anche rispetto al fatto che a volte pensano delle cose ma non le sanno dire, neanche a loro stessi. E allora bisogna aiutarli a parlare, per capire e capirsi. Poi però bisogna anche parlargli, hanno bisogno che ci sia chi gli dice qualcosa, certo poi sentendosi liberi di scegliere cosa fare . Ma una proposta che nasce da una relazione significativa non viene respinta. A Roma ci dicevamo che a volte il problema vero non è tanto di capire cosa vale la pena fare ma trovare la forza per farlo. Ecco: l’accompagnamento consiste nell’aiutarli a mettere in campo le energie necessarie.
Cosa chiedono alla Chiesa?
Di non essere giudicati. È facile esprimere giudizi affrettati, superficiali quando vediamo come sono, si vestono, si presentano, parlano... È difficile per noi adulti non giudicarli, anche perché fanno scelte a volte difficili da digerire. Ma stiamo attenti a non farlo “a prima vista”, perché tutto cambia quando ci si coinvolge in un rapporto in cui possano sentirsi accolti con fiducia. Invece la Chiesa è avvertita ancora come giudicante, e credo che questo sui ragazzi pesi molto più di grandi temi che per loro pensiamo siano problematici.
Giovani italiani al Giubileo - Stefano Carofei / fotogramma.it
Giovani italiani al Giubileo - Stefano Carofei / fotogramma.it
A Tor Vergata erano tanti, ma in parrocchia dove sono?
Intanto i giovani sono pochi in generale come generazione, molti meno di 25 anni fa. Aggiungiamo poi crisi della partecipazione, e questo spiega che nelle parrocchie se ne vedano pochi. Credo che uno dei problemi della Chiesa in Italia sia che le parrocchie sono troppo piccole: in una parrocchia con 500 abitanti a Messa la domenica ci sono solo uno o due giovani in mezzo a persone in là con gli anni. E questo certo non li motiva... Bisogna avere il coraggio di unire le forze delle parrocchie per far stare insieme i giovani, che hanno bisogno di condividere, di uscire dalle ristrettezze di confini asfissianti. Un oratorio per parrocchia oggi spesso non è sostenibile, servono posti in cui i giovani possano trovarsi, perché spesso sono da soli, vivono un cristianesimo di minoranza che per loro è molto faticoso. Ricordiamoci sempre che per noi non è stato così, siamo cresciuti in una società ancora largamente ispirata ai valori cristiani, nella quale aveva senso la domanda “perché non vai a Messa?” mentre oggi l’onere della prova si è ribaltato: “perché ci vai?”.
Quanto pesa per la loro esperienza di fede il fatto di essere una ridotta minoranza tra i coetanei?
Oggi i ragazzi che vogliono vivere la fede sperimentano una solitudine enorme in una società con altri riferimenti, a scuola, nello sport, nel divertimento. Il giovane credente da solo è smarrito, gli serve una compagnia significativa superando forme organizzative che finiscono per isolarli. Tornano da Tor Vergata e in parrocchia si ritrovano a scuola uno su cinquanta, nello sport uno su cento, in discoteca uno su mille... Come possiamo sperare che “resistano”? In comunità sempre più anziane serve pensare a celebrazioni e momenti per loro. Facciamogli spazio, negli ambienti, nei linguaggi, nelle occasioni per stare insieme. Investiamo luoghi, persone, soldi, per tenerli insieme. Gli ideali ci sono, ma la solitudine li condanna.
Come si può fare di questi ragazzi che hanno sperimentato un evento di Chiesa così grande dei testimoni, capaci di coinvolgere altri?
Intanto sono necessarie esperienze significative, che valga la pena raccontare agli altri con entusiasmo. Tor Vergata è un esempio, ma chiediamoci quante sono le cose belle che i nostri giovani desiderano comunicare. Cominciamo poi a far capire ai nostri giovani che essere cristiani è meglio che non esserlo, un fatto che ha risvolti esistenziali ma anche intellettuali su cui dovremo lavorare per aiutarli a “dare ragione” e non finire travolti da questo mondo: Bisogna saperlo dire per “reggere”. Educhiamoli a porsi la domanda a ogni passaggio di vita, dalle medie alle superiori, all’università: perché è meglio essere cristiani? Vanno aiutati a capire che nella fede cristiana c’è qualcosa che rende la vita migliore rispetto a quando la fede non c’è.
Cosa dice Tor Vergata alla Chiesa italiana oggi?
Quando Giovanni Paolo inventò le Gmg, negli anni Ottanta, c’era una sorta di rassegnazione, quasi una ritirata delle parrocchie dall’universo giovanile. Le Giornate mondiali hanno ridato fiducia alla Chiesa mostrando come fosse possibile avere un futuro con i giovani. Oggi c’è una situazione analoga: davanti a certe comunità particolarmente anziane mi chiedo chi resterà tra 15 anni. Per una Chiesa che invecchia gli eventi giovanili sono indispensabili, per mostrare che abbiamo ancora un futuro. Tra Giubileo degli adolescenti e dei giovani da una provincia di 300mila abitanti abbiamo portato a Roma in tutto 1.200 ragazzi: la dimostrazione che vale la pena impegnarsi, investire, fare progetti. stare con loro. Nessuno oggi è in grado di fare con i giovani quello che fa la Chiesa. Non dobbiamo mollare, assolutamente.

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