lunedì 18 febbraio 2013
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​Non è stato come Paolo VI il primo successore di Pietro a rimettere piede nella Terra di Gesù. E non ha dovuto nemmeno attendere anni per poterlo fare, come accaduto a Giovanni Paolo II. Eppure lo stesso non si capisce fino in fondo il pontificato di Benedetto XVI se si prescinde dal suo rapporto con la Terra Santa. A partire da quel pellegrinaggio compiuto in Giordania, in Israele e nei Territori dell’Autorità palestinese nel maggio 2009, derubricato un po’ in fretta a una sorta di rito imprescindibile per un Pontefice. Forse invece un giorno lo riscopriremo per ciò che davvero fu: una delle pagine più alte del magistero della Chiesa sul tema della pace. È stato il più difficile tra i tre viaggi dei Papi in Terra Santa quello di Benedetto XVI. Non tanto per il peso dei paragoni, che lasciano sempre il tempo che trovano. La difficoltà vera stava nella disillusione che serpeggia ormai da tempo nella regione del mondo dove il Vangelo è risuonato per la prima volta: la fatica di un conflitto apparentemente infinito come quello tra israeliani e palestinesi; le difficoltà sempre maggiori vissute dalle comunità cristiane in tutto il Medio Oriente. In questo contesto Benedetto XVI si è proposto come «un pellegrino che conferma nella speranza». L’immagine chiave nel 2009 la enunciò sul Monte Nebo, in Giordania, quando all’inizio del viaggio parlò di Mosè che da quell’altura poté vedere la Terra Promessa solo da lontano. «Siamo chiamati ad accogliere la venuta del Regno di Cristo mediante la nostra carità, il nostro servizio ai poveri e i nostri sforzi per essere lievito di riconciliazione, di perdono e di pace nel mondo che ci circonda – disse quel giorno il Papa ai cristiani della Terra Santa –. Sappiamo che, come Mosè, non vedremo il pieno compimento del piano di Dio nel corso della nostra vita. Eppure abbiamo fiducia che, facendo la nostra piccola parte, nella fedeltà alla vocazione che ciascuno ha ricevuto, contribuiremo a rendere diritte le vie del Signore e a salutare l’alba del suo Regno». In quel maggio 2009 seguirono giornate scandite da declinazioni anche scomode di queste parole: ai giovani di Betlemme, ad esempio, il Papa chiese «il coraggio di resistere ad ogni tentazione di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo», rinnovando «la determinazione a costruire la pace». Al presidente israeliano Shimon Peres, invece, confessò pubblicamente la sua tristezza per il «muro di separazione», altra tragica novità rispetto ai viaggi di Paolo VI e Giovanni Paolo II. «Mentre lo costeggiavo – disse Benedetto XVI – ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia, senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione». «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ascolta il grido degli afflitti, di chi ha paura, di chi è privo di speranza», aveva scritto nel biglietto deposto al Muro del Pianto (che gli ebrei chiamano Muro Occidentale), abbracciando nella preghiera tutti quelli di cui in Israele e in Palestina non si parla mai. Parole di pace e di giustizia rivolte a tutti, ma affidate in prima persona alle comunità cristiane della Terra Santa. Da anni si parlava di come fermare l’esodo dei cristiani; lui ha scelto la risposta più impegnativa, convocando subito dopo quel viaggio il primo Sinodo per il Medio Oriente, celebrato a Roma nell’ottobre 2010. Perché al di là di tutte le sofferenze e le persecuzioni, è la capacità di guardare avanti e la forza della testimonianza cristiana l’unica vera roccia di salvezza, anche nelle situazioni più difficili. Tra le eredità che lascia al suo successore c’è la Via Crucis del prossimo Venerdì Santo le cui meditazioni saranno scritte da due giovani libanesi, guidati dal patriarca maronita Bechara Raï. L’ultimo suo appello a un Medio Oriente alle prese con calvari sempre nuovi a ritrovare nel cuore della fede la fonte più inesauribile della speranza.
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