
Il cardinale Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli - Ansa
«Un agostiniano conosce l’inquietudine. E l’Italia è un Paese inquieto, ma non rassegnato». Domenico Battaglia è uno dei cardinali della Penisola che hanno partecipato al Conclave. Arcivescovo di Napoli, 62 anni, ha ricevuto la berretta lo scorso dicembre. L’ultima porpora creata da Francesco che è entrata nel Collegio cardinalizio. Ventiquattro ore, quattro votazioni: ed è stato eletto papa Robert Prevost, primo statunitense sul soglio di Pietro e Pontefice “migrante” che unisce il nord del mondo, dove è nato, con il sud del pianeta, dove è stato missionario (in Perù). Ma anche l’est e l’ovest, visto che le radici familiari affondano in Europa e perché ha trascorso un segmento significativo della sua vita in Italia: prima da studente a Roma; poi per dodici anni come priore generale dell’Ordine di Sant’Agostino nella casa generalizia a due passi da piazza San Pietro; e negli ultimi due anni in Vaticano da prefetto del Dicastero per i vescovi. «Il Papa – spiega Battaglia ad Avvenire – sa quali siano i limiti del nostro Paese, ma anche la sua bellezza. Conosce l’anima del nostro popolo: la sua generosità, la sua voglia di riscatto, la sua fede popolare». Leone XIV riceverà in udienza i vescovi italiani il 17 giugno nell’Aula Paolo VI. Lui che è vescovo di Roma e primate d’Italia. Sarà la prima Conferenza episcopale nazionale che incontrerà. «Mi aspetto che ci aiuti a riscoprire l’Italia profonda, quella che non fa rumore, ma costruisce ponti, accoglie, educa, sogna – sottolinea l’arcivescovo di Napoli –. E ci aiuti anche a ritrovare il coraggio della verità, nelle stanze della politica come nei confessionali».
Ci sono due “segni” consegnati da papa Leone nelle sue prime settimane di pontificato che hanno colpito Battaglia: l’invito a “disarmare il linguaggio” e la decisione di non volere selfie. Al massimo qualche foto insieme, ma non auto-scatti. «Il Papa – afferma il cardinale – ci ha ricordato che le parole non sono neutre. Possono ferire, possono guarire. Disarmare il linguaggio significa rifiutare la violenza che si nasconde nella semplificazione, nel sarcasmo, nel giudizio facile. E il rifiuto del selfie, che credo abbia a che fare anche con il carattere di Leone XIV, lo leggo come un invito a riscoprire l’incontro vero, non l’immagine. Non siamo qui per collezionare momenti, ma per costruire legami. Il Vangelo non è un post da condividere, è una vita da vivere».
Eminenza, il Conclave è stato breve. Un messaggio di unità che il Collegio cardinalizio ha voluto mandare?
«La rapidità con cui si è svolto il Conclave non è stata fretta, ma sintonia. Un sentire comune che andava oltre le parole: il desiderio di una Chiesa che continui il cammino iniziato da Francesco, una Chiesa sinodale, povera e libera, capace di abitare le ferite del mondo con misericordia e di annunciare a tutti, con gioia, il Vangelo».
Il Papa ha spiegato che la scelta del nome è legata a Leone XIII, il Papa della Rerum novarum. Nel 2025 quali sono le “questioni sociali” che anche in Italia interrogano la Chiesa?
«Oggi le “questioni sociali” non sono meno gravi, anzi sono altrettanto gravi ma più complesse. Le disuguaglianze crescono, i poveri diventano sempre più numerosi e invisibili, il lavoro precario diventa norma, i giovani non vedono futuro. In certe periferie d’Italia – e non parlo solo geograficamente – si muore di solitudine, si muore di sfruttamento, si muore di abbandono. Il grido della terra e il grido dei poveri sono lo stesso grido. La voce del Papa serve a ricordarci che non possiamo essere cristiani a metà: o scegliamo il Vangelo, o scegliamo la comodità e l’indifferenza».
Leone XIV si è presentato come il “Papa della pace”. Come declinare il suo richiamo nelle città italiane dove non mancano segni di conflitto sociale?
«La pace inizia nel modo in cui ci guardiamo, ci parliamo, ci ascoltiamo. Non è solo assenza di guerra, ma presenza di giustizia. E parte quindi dal cuore. È frutto di un lavoro che si fa anzitutto nel cuore. Nelle nostre città, la pace si costruisce quando un ragazzo viene sottratto alla criminalità e accompagnato a trovare un senso. Quando un anziano non è lasciato solo. Quando la politica torna a servire, non a servirsi. Il Papa ci ha ricordato che la pace è una scelta quotidiana, non uno slogan da gridare. E comincia da noi».
Che cosa aspettarsi dal pontificato di Leone XIV?
«Mi aspetto da lui quello che si aspetta da Pietro: l’essere confermati sulla via del Vangelo, leggendo i segni dei tempi con gli occhi della fede e camminando per le strade del mondo con i piedi ben piantati nella storia. Leone XIV ha già mostrato di andare in questo senso: la sua insistenza sulla pace come dono del Risorto, le sue parole aperte al dialogo con tutti, la necessità di custodire l’amore e l’unità, in un mondo lacerato da discordie e conflitti, sono tutte conseguenze della fede nel Crocifisso Risorto, e rappresentano il cuore pulsante del Vangelo».
Papa Francesco lascia molti processi avviati per avere una Chiesa sinodale. Quali, secondo lei, i processi che papa Leone dovrebbe concludere in maniera prioritaria?
«Il primo processo è quello della prossimità: una Chiesa che non aspetta, ma va. Poi quello della corresponsabilità: laici, donne, giovani devono trovare spazio vero. Non come ornamento, ma come forza viva. Infine, la riforma dello sguardo: imparare a vedere il mondo non con l’occhio del potere, ma con quello della compassione. Papa Leone ha il compito di custodire questi processi come semi che portano frutto. Però sono anche certo che se ne avvieranno altri perché le rivoluzioni – come quella dell’intelligenza artificiale – richiedono anche ripensamenti, verifiche, processi nuovi».
Il Papa ha invitato a crescere nella sinodalità e nella collegialità. Quale indicazione per il Cammino sinodale delle Chiese in Italia?
«L’indicazione è chiara: ascoltare davvero. Non fare soltanto incontri o documenti. Ma lasciare che lo Spirito ci sorprenda. Che i poveri parlino. Che le ferite parlino. Che i margini diventino centro. Il Cammino sinodale non è una strategia pastorale: è una conversione. E se non ci cambia il cuore, non cambia nulla. Dobbiamo abbandonare la nostalgia del potere e riscoprire la bellezza del servizio».
Il Papa ha chiesto ai giovani di non avere paura. Ci sarà il Giubileo dei giovani a cavallo fra luglio e agosto. Come immagina il rapporto che si instaurerà?
«Lo immagino fatto di ascolto e di libertà. Non credo che il Papa voglia dei giovani devoti ma muti, obbedienti ma spenti. Li vuole vivi, veri, inquieti. Il Giubileo dei giovani sarà l’occasione per incontrarli e dire loro tutto l’amore incondizionato di Dio e della sua Chiesa. E sono certo che il Papa aiuterà anche noi adulti a fare loro spazio, magari anche coltivando il coraggio necessario a fare un passo indietro. Anzi, a camminare accanto».