La ragazza-giunco e la speranza che abita la scuola
Nelle giornate giubilari del Mondo educativo, a Roma con il Papa sino al 1° novembre, educatori, insegnanti e genitori sono chiamati a una riflessione sul cuore e il senso del loro impegno con bambini, adolescenti e giovani. Un’insegnante-scrittrice condivide con noi la sua

Ci sono le storie a ricordarci ogni giorno che la speranza abita le aule di scuola. Prima storia, più di vent’anni fa. Una ragazzina altissima e sottile, un giunco, inizia un istituto professionale. Ha movenze da atleta, pallavolo si direbbe. Al primo compito scritto, un testo narrativo senza gabbie e misure obbligate, risulta brillante. Scrive in modo corretto, personale (tanti aggettivi, ma non a tutti i docenti di lettere piacciono, c’è chi dice asciuga! asciuga!), fluido. Si arriva alla fine delle quattro facciate di foglio protocollo in un attimo. Un bel voto. È una vera valutazione in realtà, non solo un numero scritto in rosso, perché ci sono la scheda, gli indicatori e i descrittori come è giusto che sia, perché i ragazzi devono capire bene il giudizio, per migliorare. Comunque, nove. Lei, il giunco, prende in mano il compito, legge, alza gli occhi e dice: «È impossibile».

Impossibile è la negazione della speranza. Se non si può non si può. La mamma aiuterà noi prof del primo anno di scuola superiore a capire. Dopo una primaria normale, alle medie era sempre stata ritenuta inadeguata, a volte nemmeno questo. Si era sentita umiliata tante volte. Comunque era uscita con giudizio sufficiente, che nel sottotesto del burocratese scolastico spesso vuol dire che a momenti non ce la fa proprio. E quindi le si consiglia il professionale. È ancora così, con la differenza che a questo oggi si aggiunge il fenomeno della segregazione spontanea, cioè le famiglie, ad esempio di immigrati o economicamente povere, tendono a scegliere sempre e comunque scuole considerate conformi al proprio status, pensando che lì si deve stare anche se i figli sono brillanti e potrebbero sperare in un futuro migliore. Le crisi economiche, le guerre, il cinismo sociale hanno spento le speranze.
A noi insegnanti i ragazzi arrivano da infinite storie diverse e li prendiamo esattamente come sono. E in aula dobbiamo pensarli sempre assolutamente nuovi.
Un aspetto singolare e interessante della scuola è che conosce momenti che possiamo chiamare nuovo inizio. Ad esempio il primo anno di un nuovo ciclo: scuola d’infanzia, media, scuola superiore. È tutto nuovo, l’edificio, i compagni, i docenti. Il segreto è non idolatrare il cosiddetto passaggio delle consegne fra livelli di scuola, che spesso è un passaggio di giudizi che genera pregiudizi. Non correre, prima ancora di conoscere le classi, a studiare i fascicoli dei ragazzi. Hanno diritto a un nuovo inizio, e soprattutto a un credito di fiducia. Possono essere diversi, cambia il corpo, si rinnovano le relazioni significative.
Per noi insegnanti è stato bello scoprire dai genitori come si è sentita la giovane studentessa alta e sottile quando, giorno dopo giorno, ha scoperto di essere una persona che vale, più capace di quanto avesse immaginato di poter sperare. La scuola vede i ragazzi e le ragazze come punti di luce sul tempo presente e speranza per il futuro. Il 4 febbraio del 1944 Dietrich Bonhoeffer invia all’amico fraterno Eberhardt Bethge una lettera dal carcere in cui si trova recluso. Ha appena saputo che è nato il primogenito dell’amico e gli scrive: «Chissà quali predisposizioni si celano in lui». Formulato dentro la bufera della guerra, nella precarietà più radicale, il pensiero è tutto rivolto al tesoro racchiuso in questa nuova vita che, prima di essere dei genitori o della società, semplicemente è vita nuova, piena di energie e talenti.
La scuola è il luogo privilegiato in cui si raccoglie la naturale attitudine a sperare dei ragazzi e nello stesso tempo si esercita la nostra. La speranza è dinamica, attiva, creativa, non è l’attesa irragionevole di una fantasticheria. A scuola si ripara l’ignoranza, si riconoscono qualità. Non c’è speranza dove si esclude e si allontana. Dove le energie vengono dissipate ad assecondare ideologiche visioni di merito e punizioni.
Seconda storia, più recente. Ancora in un professionale. Un ragazzo molto volonteroso e insieme molto in difficoltà. Scrive in modo scorretto, non ama leggere, le due lingue straniere sono un muro per lui, porta sempre i compiti, è gentile. Dai genitori convocati si scopre che l’ambiente familiare è sereno ma culturalmente povero, e si scopre anche che lui è un vero piccolo campione di ciclismo, una speranza, così si dice anche nello sport. Ha vinto molto, ma non se ne è mai vantato. Nemmeno i genitori lo fanno. Il collega di scienze motorie osserva che il ciclismo è uno sport durissimo, tanta disciplina. Corre un brivido di ammirazione fra noi docenti, perché non manca un giorno, mai. Forse potrebbe leggere qualche libro sul ciclismo, ci diciamo. Sarà così, per lui una vera scoperta, li legge uno dietro l’altro, ammirando pagina dopo pagina le fatiche e anche – lo scriverà nei compiti – le lealtà che sostenevano i successi dei suoi campioni, sia di quadra e che fra avversari. Nessun miracolo scolastico, in questo caso, il diploma arriva con enorme fatica. Anni sereni, comunque. Lo dirà lui con una semplicità senza infiorettature: «Venivo a scuola volentieri, anche se non ero bravo sentivo che vi andavo bene lo stesso».
In mezzo, fra le due storie, ci sono tantissime vite giovani ricevute e riconosciute.
Coltivare la speranza non delude mai. Questo è.
Insegnante e scrittrice
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