«Noi, ragazzi palestinesi di Betlemme, crediamo in un altro futuro»
Una settimana in una parrocchia di Roma tra Messe e canti, con il cuore e la mente rivolti al Medio Oriente. «Grazie agli italiani che ci sono vicini»

«Non ci aspettiamo delle grandi cose. Però sappiamo che gli italiani ci sono vicini, che pregano per noi, ci aiutano, anche in forme non appariscenti. Ci basta la vostra accoglienza, come questa sera. Ci basta che vediamo una bandiera della Palestina che sventola dalla vostre case, e il nostro cuore si riempie di speranza». Lina, ventisettenne palestinese della Gioventù francescana della parrocchia di Santa Caterina a Betlemme, ha un sorriso autentico che non nasconde la malinconia per i giorni drammatici della guerra e gli occhi stanchi per il lungo viaggio. Ha partecipato alla Santa Messa e perfino cantato, in arabo, alcuni canti tradizionali del repertorio liturgico italiano, e ora parla, senza nascondere nulla, alla comunità di San Melchiade a Roma, che per una settimana intera ha ospitato lei e una ventina di ragazzi e ragazze palestinesi dai venti ai trenta anni. Racconta il dramma di vivere nell’avamposto della speranza chiamato Betlemme, mentre arrivano in diretta, sui telefonini, le notizie dell’accettazione di Hamas del piano di tregua voluto dal presidente Trump. Qualche lacrima scende sul viso di alcune ragazze dal volto semplice e con i capelli a treccia che scendono lungo le spalle.
«Noi cristiani di Terra Santa siamo in attesa del nostro Gesù vivente», racconta sempre Lina. «Altrimenti saremmo già andati via dalla nostra città. Come hanno fatto altri. Chi ha potuto permettersi una vita migliore, se ne è andato altrove, soprattutto in America». Betlemme, come gli altri territori della Cisgiordania, vive un momento drammatico. «Non abbiamo la libertà di muoverci, perché è tutto sotto il controllo israeliano – continua Lina –. La disoccupazione ha raggiunto altre il 30 per cento a causa del crollo del turismo. Ormai a Betlemme non ci va più nessuno da un paio d’anni: la guerra ha rovinato tutto. Niente attività ricettiva, niente ospitalità, solo tanta paura per la guerra in corso. Betlemme non è toccata dalle bombe, per fortuna. Ma ogni giorno vediamo come i missili sorvolano la nostra città in direzione Gaza. Un terrore quotidiano e un’angoscia perenne, che stravolge la vita soprattutto ai nostri bambini. Sono loro le vittime innocenti di una guerra lacerante che sembra non avere fine».
«Ma noi aspettiamo Gesù che viene - insiste la giovane -. Il nostro Natale. Anche se il Natale e la Pasqua sono state cancellate, a causa della guerra in corso. E tanti emigrano altrove, in cerca di nuove opportunità. D’altronde la mobilità, e quindi la libertà vera, è limitata fortemente da posti di blocco, cancelli, check point, muri. E militari dappertutto. Siamo blindati. E, con continue violazioni del diritto internazionale, perdiamo le nostre terre a causa dell’espansionismo ingiustificato voluto dal governo israeliano. Quella terra che però ci dà vita. E ci salva».
Una testimonianza che è anche una possibilità, per i ragazzi di Betlemme, di raccontare cosa succede in Terra Santa. Dove i tg non fanno vedere nulla. Ma per fortuna ci sono i social media, c’è Instagram. Lì riescono a informarsi, con storie, video, foto. Anche se il controllo dell’intelligence israeliana è quotidiana, asfissiante. Così il viaggio per arrivare a Roma diventa un’odissea. Dovevano arrivare a luglio, ma la guerra ha limitato gli spostamenti. Partiti il 24 di settembre attraverso Gerico, unica porta di accesso ufficiale per “espatriare” dalla Palestina da sempre, non solo dall’inizio di questa guerra, è stato un calvario. Cinque ore solo per prendere il numeretto per presentarsi a Gerico per i controlli. E si ritengono pure fortunati, perché dopo di loro l’esercito israeliano non ha fatto più uscire nessuno. Da Gerico ad Amman, in Giordania. Sono così arrivati a Modena il 25 di settembre, e dopo un paio di giorni eccoli a Roma, ospitati da questa parrocchia attraverso un gemellaggio nato tempo fa da un viaggio del parroco, don Giuseppe Falabella, proprio in Terra Santa.
Tanti abbracci, tanti sorrisi, tanta voglia di far festa insieme. E ascoltare la loro testimonianza. Lina, che parla un italiano più che fluido essendo stata per alcun anni dai salesiani a Torino, si è laureata in gestione alberghiera e ora vorrebbe insegnare. Se ci sarà futuro. Per ora lavora in un ristorante. «Per forza ci sarà futuro – ci risponde con un sorriso Lina –. Ci deve essere per forza. Gesù è nato qui. Lo aspettiamo ogni anno il 25 di dicembre. È la nostra unica speranza. Non ci lascerà soli».
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