domenica 9 dicembre 2018
Il presidente della Cei: «La Chiesa non è un partito politico, non può stare all'opposizione di alcun governo. Ma oggi come ieri resta voce critica». «Avvenire appartiene a tutti»
Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei con i ragazzi dell'Oratorio Valdocco a Torino (Pasquale Juzzolino, archivio)

Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei con i ragazzi dell'Oratorio Valdocco a Torino (Pasquale Juzzolino, archivio)

COMMENTA E CONDIVIDI

Sulla scrivania del suo studio ha appunti, lettere, libri. E nel lungo tavolo di fronte una parte è dedicata ai quotidiani. Un angolo l’ha riservato ad “Avvenire”. Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, lo prende in mano. Le finestre si affacciano su piazza 4 Novembre, nel cuore di Perugia, che lui spesso attraversa a piedi o guidando da solo l’auto. «“Avvenire” è un quotidiano che appartiene a tutti, non ai vescovi – spiega l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve –. È uno strumento che la Chiesa italiana mette a disposizione dell’intero Paese. E, come diceva Giovanni Battista Montini, oggi san Paolo VI, che l’aveva voluto con tenacia, intende essere “un giornale che cerca di affermarsi come testimonianza sincera e moderna d’un cattolicesimo vivo”. In questi giorni “Avvenire” compie cinquanta anni: è un traguardo prestigioso e un punto di partenza. Per questo ritengo più che mai attuale un’intuizione del teologo svizzero Karl Barth che invitava ciascun cristiano ad avere in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale».

Eminenza, qual è oggi il ruolo del quotidiano dei cattolici italiani?
Qualcuno potrebbe pensare che nell’era di Internet e delle reti sociali un giornale di carta sia superato. Non penso che sia così. Proprio adesso che siamo inondati di informazioni di cui spesso non conosciamo le fonti o l’attendibilità e che addirittura sono costruite ad arte sulla menzogna e sulle falsità creando un’autentica spirale di disinformazione, c’è bisogno di un porto sicuro, di un riferimento saldo. “Avvenire” è un’opportunità. La Chiesa italiana è ricca di sensibilità, attenzioni, visioni. Non è sinonimo di “pensiero unico”. “Avvenire” mi sembra che sia uno specchio di questa ricchezza. Un quotidiano che non dà spazio alle grida, che «cerca con umiltà la verità», come ha evidenziato papa Francesco ricevendo lo scorso maggio il personale del giornale. Lo definirei un’agorà, come è chiamata anche una sezione del giornale, ossia un luogo d’incontro in cui ogni cattolico si senta a casa e in cui anche chi è “lontano” possa considerarlo sempre aperto benché con la sua chiara identità. Eppure celebriamo il mezzo secolo anche con un filo di amarezza…

Quale amarezza?
Si sta prospettando da diverse settimane il taglio ai contributi pubblici per l’editoria e il pluralismo. Sarebbe uno sbaglio vararlo perché penalizzerebbe non solo “Avvenire”, ma anche numerose altre testate fra cui quelle diocesane. Testate che danno voce ai territori, che sono espressione di comunità vive e che rappresentano una pluralità di visioni. Soprattutto, si tratta di testate, come “Avvenire”, che non hanno come scopo il profitto ma che sono un servizio.

Qualcuno sostiene che la Cei sia all’opposizione dell’attuale governo gialloverde.
La Chiesa italiana parla e dialoga con tutti. Perché è una comunità di fedeli in Cristo e non certo un partito politico. Quindi non può stare all’opposizione di alcun governo. Oggi come in passato siamo “voce critica” ma al tempo stesso accogliamo le iniziative che riteniamo opportune e che sono a favore del bene comune. Tutto ciò che viene fatto concretamente per l’Italia, per i poveri, per la famiglia, per i giovani e per il lavoro ha sempre il nostro incoraggiamento. Ovviamente non bisogna cercare scorciatoie demagogiche o alimentare aspettative illusorie. Soprattutto non bisogna soffiare sul fuoco del conflitto sociale e occorre affrontare in positivo le questioni dei migranti e dell’Europa.

L’Italia è in rotta con l’Europa?
Penso e spero di no. Ho letto alcune dichiarazioni apprezzabili del presidente del Consiglio Conte. D’altra parte il rapporto tra il nostro Paese e l’Europa è stato sempre un rapporto intenso. Un legame antico e fecondo, prima di tutto religioso-culturale e più recentemente politico. Rinnegare l’Europa significa rinnegare noi stessi e le nostre radici cristiane. Proprio per questo, però, l’Unione Europea non può ridursi a parametri, bilanci, decisioni varate a tavolino. Deve essere accanto alla gente, favorire la condivisione, la fraternità sociale, sostenere chi è in difficoltà. L’ho detto anche pochi giorni fa: auspico un’Europa come famiglia di famiglie, come luogo di solidarietà e carità, come comunità di popoli in pace che supera gli egoismi e i rancori nazionali. Ovvero, un’Europa unita, pacificata e solidale.

La Chiesa italiana è in prima linea nell’accoglienza dei profughi ed è intervenuta anche quando le navi sono state lasciate in mare o bloccate in porto.
Non mi stancherò mai di ripeterlo: la Chiesa cattolica, da sempre, si prende cura dei poveri, degli “scarti” e degli ultimi. I poveri, anche quelli forestieri di cui non sappiamo nulla, appartengono alla Chiesa «per diritto evangelico» come disse Paolo VI. Ed è in virtù di questo «diritto evangelico» che la Chiesa italiana si muove con cura e compassione verso coloro che scappano dalla povertà, da guerre, carestie, fame, persecuzioni. Perché accogliere un profugo significa salvare una vita. Pertanto in nome del Vangelo chiediamo di non porre ostacoli, anche di natura legislativa, all’accoglienza e al primo aiuto dei migranti che bussano alle nostre porte o che giungono nelle nostre coste, magari salvati in mezzo al mare. Aggiungo che l’accoglienza va fatta con carità, grande responsabilità e, come ha sottolineato il Papa, secondo le possibilità effettive che possono essere garantite. Mi dicevano alcuni vescovi africani durante il Sinodo sui giovani che le continue partenze svuotano i loro Paesi di molte potenzialità. Per questo motivo vanno incentivate, e non ridotte, le forme di cooperazione internazionale. Un orizzonte che la Cei ha ben chiaro da molto tempo, come testimonia il progetto “Liberi di partire, liberi di restare”.

Il fenomeno migratorio sarà anche all’ordine del giorno l’Incontro di riflessione e di spiritualità per la pace nel Mediterraneo che si terrà nel novembre 2019 a Bari. Perché lo ha voluto?
È un progetto che coltivo fin da quando sono stato nominato presidente della Cei e che è stato fatto proprio dai confratelli vescovi. Il Papa ha accolto il nostro progetto di radunare in Italia i vescovi dei Paesi che si affacciano sul grande mare per pregare insieme e per confrontarci su angosce e speranze delle nostre genti. Da prete fiorentino mi sono ispirato alla visione profetica di Giorgio La Pira che proprio 60 anni fa aveva voluto i Colloqui mediterranei e che era solito definire il Mediterraneo come una sorta di «grande lago di Tiberiade» che accomunava la «triplice famiglia di Abramo». Si tratta di un incontro unico nel suo genere perché non sarà certo un summit politico e neanche un convegno di intellettuali. Ma sarà un incontro di vescovi che provengono tre continenti diversi: Europa, Asia e Africa.

Perché la scelta di Bari come sede dell’evento?
Perché Bari è un grande porto del Mediterraneo e una porta dell’Europa in grado di unire Occidente e Oriente in un abbraccio di «pace, amicizia e solidarietà fra i popoli». E poi perché proseguiremo nel cammino già tracciato da papa Francesco quando nello scorso luglio, proprio a Bari, ha incontrato i capi delle Chiese del Medio Oriente lanciando un grande messaggio di pace.

Quali temi in agenda per l’Incontro del prossimo anno?
Davanti agli occhi, e soprattutto nel cuore, abbiamo le tante situazioni di estrema instabilità politica e di forte criticità dal punto di vista umanitario. Dalla Libia alla Siria, dall’Iraq a Israele, solo per esemplificare, il Mediterraneo è teatro di conflitti e tragedie, di scelte disperate e di minacce. Fra le emergenze c’è anche quella migratoria. Osserviamo con viva apprensione un fenomeno che vede migliaia di persone fuggire dalle regioni povere dell’Africa, affrontare in condizioni indicibili la traversata del deserto, per finire profughi in mare e spesso morirci. Di fronte a uno scenario così preoccupante, il mondo politico e le organizzazioni internazionali sembrano incapaci di ricercare soluzioni adeguate. Allora mi sono posto il problema di che cosa possa fare la Chiesa per difendere il bene prezioso e fragile della pace e per proteggere ovunque la dignità umana, sempre più calpestata. Incontrando uomini di cultura, vescovi, politici attenti e studiosi, abbiamo maturato la convinzione di un segno forte che la Chiesa debba lanciare per tentare di fermare la violenza e riportare tutti al bene della riflessione e della pacifica soluzione delle controversie.

Ha citato La Pira. È possibile rilanciare la presenza dei cattolici sulla scena politica?
È auspicabile un impegno concreto e responsabile dei cattolici in politica. Ma è un impegno che spetta senza dubbio ai laici. Laici che, però, non solo devono essere adeguatamente formati nella fede, ma sono chiamati ad assumere come bussola dei loro comportamenti quella «visione martiriale» della politica evocata da papa Francesco. La politica per i cristiani non è il luogo per fare soldi o per avere il potere. È all’opposto il luogo del servizio, di chi non si lascia corrompere e del «martirio quotidiano». Come pastore ho il dovere di ricordare e suggerire ai laici di servirsi di quel tesoro prezioso che è la Dottrina sociale della Chiesa. Un tesoro a disposizione dell’umanità intera, ma che non è ancora stato compreso appieno. Se fosse stato veramente recepito, avremmo superato quella sterile divisione del passato tra i cosiddetti “cattolici del sociale” e i “cattolici della morale”. Dobbiamo tornare all’unità del messaggio evangelico e capire fino in fondo che la difesa della vita e della famiglia è collegata inscindibilmente con la cura dei poveri, degli ultimi e degli scarti della società.

Allora come comportarsi?
Ci sono già tantissime esperienze sul territorio a livello associativo o anche singole esperienze. Ricevo continuamente lettere di incontri, anche piccoli, di uomini e donne di buona volontà che hanno a cuore il bene comune della propria città, provincia o regione. Esperienze che forse andrebbero messe in rete in una sorta di Forum civico. Occorrono giovani laici cattolici, trentenni e quarantenni, che sappiano cucire reti di solidarietà e di cura. E che soprattutto sappiano essere il sale della terra. Sappiano cioè parlare e dialogare con tutti coloro – senza distinzione di fede e cultura – che hanno veramente a cuore il futuro dell’Italia e dell’Europa. Senza creare nuovi ghetti e nuovi muri.

Quali sono le priorità per il nostro Paese?
Il lavoro precario e la disoccupazione; il fortissimo decremento delle nascite, la famiglia attaccata dalle ideologie, la famiglia che si spezza e la famiglia sola nel vortice quotidiano; i giovani abbandonati e i giovani costretti a lasciare l’Italia per lavoro. Per un decennio abbiamo affrontato il tema dell’educazione e della vita buona del Vangelo; ma alla luce del recente Sinodo dei vescovi si aprono nuove prospettive. E poi un pensiero particolare per le popolazioni terremotate – occorre fare di tutto per incentivare la rinascita, finora si è fatto troppo poco – e per il nostro Mezzogiorno dimenticato e devastato dalla cronica mancanza di lavoro e dalla criminalità. In ogni diocesi che ho visitato, ho toccato con mano la speranza rappresentata dai tanti “talenti” diffusi sul territorio: persone serie, oneste e competenti che hanno desiderio di donare se stessi e di mettersi in gioco. Ma ho anche visto la disperazione sui volti di chi vive il deserto morale del mondo contemporaneo: un deserto di relazioni interpersonali, di individualismo, di nichilismo e tanta solitudine. Anche questo necessita di risposte. La nostra prima risposta, come pastori, è Gesù Cristo.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI