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Breaking stereotypes - Myriam Meloni
C’è una ragazza su una motocicletta. Sul volto un mantello colorato ne cela l’identità. Il tessuto è un kanga, indumento tradizionale del Kenya sul quale ogni disegno esprime un messaggio, quello che attraverso i simboli quella donna ha scelto di dire alla propria comunità. Lo scatto racconta di una giovane che andando contro la cultura locale ha realizzato il sogno di guidare una motocicletta, là dove «i mototaxi, boda boda, sono un affare prettamente maschile e spesso anche poco sicuro», racconta Ariele Di Mario, referente del progetto di fotografia partecipata che ha dato vita alla mostra di Reggio Emilia di cui questa immagine fa parte, “Women See Many Things”, organizzato da WeWorld con il contributo dell’Unione Europea e della Provincia autonoma di Bolzano.
La mostra – con due esposizioni tra la sede universitaria di Viale Allegri e Palazzo Da Mosto – è stata realizzata con il supporto della Fondazione Palazzo Magnani e del Comune di Reggio Emilia nell’ambito del festival Fotografia Europea 2025, come atto finale di un percorso iniziato con il programma Kujenga Amani Pamoja, che in swahili significa «costruire la pace insieme». Un programma attivo nella Swahili Coast – tra Kenya, Tanzania e Mozambico – che intende rafforzare la coesione sociale in contesti fragili, caratterizzati da povertà, disoccupazione e alto rischio di radicalizzazione giovanile. «Nella Swahili Coast oltre il 70% della popolazione ha meno di 35 anni e molti non hanno accesso all’istruzione. La fotografia è stata il mezzo per coinvolgerli, promuovere l’inclusione», spiega Di Mario. In ognuno di questi tre Paesi si è tenuto un workshop, coinvolgendo un totale di 30 donne tra i 18 e i 35 anni di età. Coordinate dalla fotografa italo-francese Myriam Meloni, guidate da fotografe locali – Halima Gongo, Gertrude Malizeni e Nelsa Guambe – le partecipanti hanno raccontato il mondo che le circondava a partire da una domanda: quali sono gli aspetti di conflitto e di pace all’interno della tua comunità?
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Seaweed farm - Gertrude Malizeni
Ogni gruppo ha declinato il tema in modo diverso. In Kenya le giovani hanno occupato simbolicamente spazi pubblici dominati dagli uomini: dalla moto, appunto, ai posti in cui si può giocare a dama per strada, chiacchierare o guardare il calcio. Hanno sfidato gli stereotipi, fotografando sé stesse mentre abitano quei luoghi.
In Tanzania, hanno scelto di raccontare un conflitto che si gioca nelle acque. La coltivazione delle alghe – tradizionalmente femminile – entra spesso in contrasto con la pesca, attività prevalentemente maschile. Le fotografe hanno dunque raccontato l’utilità delle alghe in campo alimentare, farmaceutico e cosmetico, e immortalato gesti di collaborazione tra uomini e donne. «Una delle foto più forti mostra un uomo che aiuta una donna nel lavoro. È un’immagine rara e potente», spiega Di Mario.
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Community Photographers - Nelsa Guambe
In Mozambico, invece, le fotografie hanno messo in luce la violenza di genere, la carenza di istruzione e servizi sanitari per le donne: tutti aspetti che minano la coesione sociale. Sul versante opposto il lavoro di cura, la maternità, i giochi e le danze tradizionali, esaltati negli scatti come fattori di unione. Una di queste foto mostra un gruppo di giovani donne raccolte attorno allo schermo di una fotocamera, intente a osservare e osservarsi nei loro scatti. «È un’immagine che parla di scoperta – osserva ancora il referente –. Per molte di loro era la prima volta con in mano questo strumento».
Colpisce infine vedere come «alcune storie locali, che mostrano per esempio il maggior carico di lavoro sulle spalle delle donne, ci tocchino da vicino – riflette Di Mario –, perché la disuguaglianza di genere non è un problema solo di queste aree africane. Anche in Italia, ancora oggi, l’ambizione professionale di una donna può essere vista male e le donne spesso sono impegnate di più nella cura anche se lavorano». “Women See Many Things” è insomma un invito a guardare e a lasciarsi guardare. Perché, come dimostrano queste giovani africane, la fotografia è un mezzo di espressione, ma può essere anche un atto di affermazione.