domenica 3 aprile 2016
Al voto per un modello di sviluppo. Il Sì: si inquina e non c’è vero ritorno. Il No: da un alt danni a economia e ambiente. LA MAPPA DELLE ESTRAZIONI
LO SCENARIO Cosa succede se vince il "Sì" o se vince il "No"
Ecco che cosa è in gioco sulle trivelle
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Il referendum popolare del 17 aprile è come l’innesco di una bomba. Se fa cilecca non succede nulla. Se invece si attiva, le conseguenze sono ben superiori a quelle promesse dal quesito. Tra due settimane, agli elettori maggiorenni di tutta Italia che si recheranno alle urne dalle 7 alle 23 verrà chiesto infatti di rispondere alla seguente domanda: «Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, 'Norme in materia ambientale', come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)', limitatamente alle seguenti parole: 'per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale »? Più chiaramente: volete che, al termine delle concessioni già rilasciate, le società petrolifere che attualmente estraggono gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane, non possano continuare a farlo fino ad esaurimento del giacimento, senza limiti di tempo? Come sempre, il referendum sarà valido se verrà raggiunto il quorum (50% + 1 degli aventi diritto); vince chi si aggiudica la maggioranza dei voti validi.

CLICCA PER INGRANDIRESe vince il 'sì'. Questo referendum abrogativo è stato promosso da nove Regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) e produce effetti giuridici solo in caso di vittoria del 'sì'. In ogni caso, non sono in discussione tutte le concessioni petrolifere e – sul piano strettamente giuridico – il voto non avrà effetti sull’intera politica energetica del Paese: condizionerà solo alcune delle concessioni marine già riconosciute, ossia quelle ubicate entro le 12 miglia dalla costa o dalle aree protette (poiché le altre continueranno a durare al massimo 30 anni), che, diversamente dal passato e da tutte le altre concessioni pubbliche, in base alla legge di Stabilità sono rinnovate oltre la loro scadenza fino a che il giacimento non è più considerato remunerativo. Se tutta la questione si esaurisse qui, una vittoria del 'sì' imporrebbe unicamente di interrompere quelle perforazioni o di trattare nuovamente royalties e scadenze con le società minerarie (italiane e straniere). Quindi, nessuno stop immediato alle piattafor- me attive né la perdita di posti di lavoro. Tuttavia, in caso di vittoria del 'sì' alla scadenza delle concessioni governative, decine di giacimenti dovrebbero essere abbandonati, con una perdita economica e occupazionale certa ancorché difficile da stimare, perché, come accade spesso in politica, i numeri vengono piegati alle convenienze di parte. LO SCENARIO SE VINCE IL SI', SE VINCE IL NOQuante piattaforme 'rischiano'. I numeri sono sufficientemente chiari se ci si ferma alla fotografia delle concessioni su cui impatta il referendum. Rispetto all’intera industria estrattiva, che conta, secondo il ministero dell’Ambiente, più di 1.200 pozzi che coprono il 10% del fabbisogno nazionale di gas e il 7% del petrolio, la consultazione popolare, stando ai dati di Legambiente, mette a repentaglio il 27% del totale del gas e il 9% del greggio estratti in Italia che rappresentano però lo 0,95% del fabbisogno nazionale di petrolio e il 3% di gas. Più analiticamente, il voto popolare condizionerà, in caso di vittoria del 'sì' il futuro delle 35 concessioni di coltivazione che si trovano entro le 12 miglia; di queste, 3 sono inattive, 1 è in sospeso e 5 non risultano produttive. Pertanto, sono 26 le concessioni attive (79 piattaforme e 463 pozzi) che rischiano di veder saltare il proprio piano industriale in caso di vittoria dei referendari e, di queste, 9 concessioni (38 piattaforme) sono già scadute o si trovano in scadenza e hanno già presentato una richiesta di proroga, mentre 17 (41 piattaforme) scadranno tra il 2017 e il 2027 e andranno alla normale scadenza anche in caso di vittoria dei 'sì'. Soldi e lavoro.  Ben più complessa la stima degli effetti economici del referendum. Il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, nei giorni scorsi ha parlato di «ricadute oc- cupazionali pesantissime» quantificando in «10mila posti più l’indotto e miliardi di investimenti» il costo di una vittoria del 'sì'. Valutazioni che Nuova Ecologia smonta così: «Assomineraria parla di 13mila occupati nel settore estrattivo in tutta Italia, tra attività a terra e a mare (dentro e fuori le dodici miglia) e 5mila posti di lavoro a rischio con il referendum (...). Le stime ufficiali riguardanti l’intero settore di estrazione di petrolio e gas in Italia (fonte Isfol - Ente pubblico di ricerca sui temi della formazione, delle politiche sociali e del lavoro) parlano invece di 9mila impiegati in tutta Italia e di un settore già in crisi da tempo. Secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie petrolifere, a causa del crollo del prezzo del greggio, è ad alto rischio di fallimento nel 2016, con un debito accumulato complessivamente di 150 miliardi di dollari». Le ragioni del sì. Il fronte del 'sì' è composito, perché va dalle Regioni ai comitati No Triv. Semplificando, chiede agli italiani di recarsi a votare il 17 aprile e di votare 'sì' perché le ricerche di petrolio e gas mettono a rischio gli habitat marini e non danno un beneficio durevole al Paese; in particolare, teme un incidente come quello avvenuto nel 2010 nel Golfo del Messico. Propone di convertire i lavoratori dell’industria mineraria nella produzione di energie rinnovabili da cui dipende più del 40% della nostra energia elettrica e che dà già lavoro a 60mila addetti, con una ricaduta di 6 miliardi di euro. Le ragioni del no. Anche il 'no' rappresenta una galassia complessa, che va dal governo, che ha negato l’accorpamento del referendum alle elezioni amministrative per disincentivare la partecipazione, al comitato Ottimisti e Razionali, l’alter ego 'industriale' dei No Triv. Chi chiede agli italiani di non andare alle urne o di votare 'no' avanza motivi economici e ambientali: secondo gli Ottimisti e Razionali, se si limita la durata delle concessioni – oltre a perdere lavoro e ricchezza nazionale – ci saranno meno investimenti e quindi anche meno si- curezza degli impianti, la cui sostenibilità, comunque, è garantita dalla rigidità delle procedure autorizzative e dal fatto che questo tipo di industria produce meno rifiuti rispetto ad altre, come la chimica e la siderurgia. La posta in gioco.  Su un punto sono tutti sinceri. Dal premier che cercherà di imporre la linea del 'no' alla direzione Dem di domani, che si preannuncia infuocata, al ministro Galletti, secondo cui il referendum significa solo «farsi del male»; da Legambiente, la quale annuncia che «il tempo delle fonti fossili è scaduto », al coordinamento nazionale No Triv, secondo cui «far esprimere gli italiani sulle scelte energetiche strategiche è la vera posta in gioco di questo referendum». La vera posta in gioco è politica. L’esito del referendum può indicare l’adesione degli italiani a un modello di sviluppo diverso da quello che ispira il governo e che i fautori del 'sì' giudicano eccessivamente piegato alle logiche del mercato e poco partecipativo. In questa logica, si comprende anche il ruolo delle Regioni, soggette, da tempo, a un ridimensionamento politico e finanziario. I cattolici. La Chiesa italiana in questi anni ha lavorato intensamente sui temi ambientali, una sensibilità catalizzata dalla 'Laudato si’': nelle scorse settimane alcuni vescovi, organismi diocesani e comunità si sono pronunciati in favore del sì al referendum. Esprimendo la posizione della Conferenza episcopale italiana, il segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, ha spiegato che «non c’è un sì o un no da parte dei vescovi al referendum» ma ha invitato a «coinvolgere la gente a interessarsi alla questione». Manca il confronto ed invece bisogna «parlarne, non fermarsi al sì o al no, perché manca un sufficiente coinvolgimento delle persone. E non si tratta – ha sottolineato – del solo problema delle trivelle, domani ci sarà quello del nucleare, poi altri ancora. Manca piuttosto l’approccio culturale, il ragionare sulle cose».
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