martedì 26 luglio 2022
È considerata la “settima vittima” della strage in cui morì Borsellino. In suo nome è nata una cooperativa che coltiva terre confiscate. Per anni la sua lapide restò senza nome
La tomba di Rita Atria

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"Ricordare Rita Atria significa ricordare come sono andate sempre le cose nel nostro paese.
Serve a dare un valore aggiunto alla lotta alla mafia". Così si è espresso il presidente della Camera Roberto Fico dopo aver deposto un cuscino di fiori davanti alla targa che ricorda il suicidio della collaboratrice di giustizia vicina a Paolo Borsellino che si tolse la vita 30 anni fa a pochi giorni dalla
strage di via D'Amelio.

"Rita nel cuore 30 anni dopo" è, invece, il titolo della manifestazione che oggi si svolge a Partanna (Tp) per ricordare la scomparsa della giovane testimone di giustizia che collaborò con il giudice Borsellino.
Il ricordo del sacrificio di Rita che, con la cognata Piera Aiello, consentì di fare luce su delitti di mafia, inizia alle 16 nel cimitero del paese, con una Messa celebrata dal vescovo di Mazara, Domenico Mogavero.


«Mi raccomando la picciridda », diceva negli ultimi giorni Paolo Borsellino. Parlava di Rita Atria, la ragazzina di 17 anni di una famiglia mafiosa di Partanna che dopo l’uccisione del padre e del fratello, decise di andare a raccontare alle forze dell’ordine tutto quello che aveva visto e che sapeva sulla mafia del suo territorio. Testimone non collaboratore di giustizia, perché Rita non aveva commesso alcun reato.

A raccogliere le sue parole proprio Borsellino, allora procuratore di Marsala, assieme alla collega Alessandra Camassa. E la picciridda si affidò a lui, trovando un secondo padre. Un rapporto intenso tra la ragazza, il magistrato e la moglie Agnese. Rita è sempre più convinta della strada presa. E lo scrive. «Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di quello o perché hai pagato per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo».

Ma poi arriva la bomba di via D’Amelio e la ragazza è disperata. È a Roma in un appartamento protetto in via Amelia. Scrive un’ultima riflessione. Un grido di speranza: «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci». Ma il dolore è troppo e aggiunge: «Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta». Poi il 26 luglio si lancia dalla finestra al settimo piano.

È la settima vittima di via D’Amelio, e diventa un simbolo dei giovani siciliani che provano a scrollarsi di dosso il marchio mafioso. Non per sua madre che la ripudia, trattandola da infame anche dopo la morte. Così spezza la lapide della tomba che per anni resta senza nome, solo una foto, ma truccata per farla sembrare più vecchia dei suoi 17 anni. Ora ci sono due lapidi e due foto. È una tomba che racconta due storie, quella della ragazza di una famiglia mafiosa e quella della picciridda. Quest’ultima raccontata, con fatti concreti, da altri ragazzi della sua stessa terra che hanno costituito una cooperativa che porta il suo nome e che coltiva terreni confiscati alla mafia trapanese, quella del boss Matteo Messina Denaro, l’ultimo latitante delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ma anche di altri boss come Vincenzo Virga, il narcotrafficante Salvatore Miceli e l’imprenditore Gaetano Sansone, prestanome di Totò Riina e molto vicino a Messina Denaro.

Un cerchio che si chiude, o quasi, in attesa che anche 'Diabolik', soprannome del superlatitante, finisca in carcere per pagare quella stagione di morte e terrore. Quella alla quale Rita, la picciridda, aveva detto no. «La raccontiamo col nostro lavoro – ci spiega Vito Mazzara, presidente della cooperativa –. I nostri capisaldi sono memoria e impegno, col lavoro e col racconto a chi viene da noi». Siamo a Seggio Torre nel Comune di Castelvetrano, dove in una bella masseria, qui chiamata 'baglio', ristrutturata coi fondi del Pon sicurezza, ha sede la cooperativa. Tutto attorno uliveti e seminativi.

Nata nel 2014, su iniziativa di Libera, Prefettura di Trapani, Diocesi di Mazara del Vallo, la Rita Atria gestisce 180 ettari nei Comuni di Castelvetrano, Paceco, Salemi e Partanna, proprio la terra di Rita. Confiscati 30 anni fa e per decenni abbandonati o rimasti in mano ai mafiosi. «Abbiamo dovuto investire fondi e lavoro per recuperare e rimettere in produzione gli uliveti che erano in stato di abbandono». Castelvetrano è il paese della provincia di Trapani col maggior numero di beni confiscati, molti inutilizzati, e per questo l’esempio della cooperativa è molto importante. Si coltivano grano, ceci, lenticchie, foraggio e la famosa oliva nocellara del Belice, l’«oro verde» di queste terre, prodotti rigorosamente biologici che vengono poi conferiti per la trasformazione al Consorzio Libera Terra Mediterraneo. Tre soci lavoratori e sedici operai (diciannove lo scorso anno). Tra loro anche lavoratori proveniente da comunità di recupero per tossicodipendenti, disabili psichici, soggetti svantaggiati o inseriti in percorsi di rieducazione, e due immigrati. «La mafia c’è ancora, ma anche una consapevolezza diversa – riflette Vito –. È cresciuta la fiducia. Quando esco di casa la mia preoccupazione non è di mettere il giubbotto antiproiettile ma se pioverà o meno.

L’unico modo per convincere che lavoriamo bene è lavorare bene. E questo è il nostro modo per comunicare che l’uso a fini sociali dei beni confiscati è una grande opportunità, anche come posti di lavoro e integrazione dei soggetti svantaggiati». Infatti, la 'Rita Atria' collabora con un’altra cooperativa di Castelvetrano, la 'Talenti', in un progetto per soggetti fragili, con fondi regionali, e per i campi 'E!State Liberi!' organizzati da Libera, che durante i mesi estivi portano migliaia di ragazzi di tutta l’Italia a donare tempo e impegno lavorando sui terreni confiscati dal Nord al Sud. Ragazzi che proprio qui a Castelvetrano conoscono la picciridda, la sua storia e chi ne ha raccolto il testimone.

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