domenica 20 dicembre 2020
Un bimbo abbandonato perché malato, l’incontro con un medico e un’infermiera del Bambino Gesù Poi il trasferimento in Italia per le cure e la decisione di adottarlo
Un bambino ricoverato al Bambino Gesù di Roma e la “sorpresa” dei supereroi al lavoro sulla facciata dell’ospedale

Un bambino ricoverato al Bambino Gesù di Roma e la “sorpresa” dei supereroi al lavoro sulla facciata dell’ospedale - .

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Tutto è stato più chiaro quando quel bimbo, appena risvegliatosi dalla terapia intensiva, ha pronunciato quattro semplici lettere dal suono dolce: «Papà». Ad ascoltarle quello che da lì a pochi anni sarebbe davvero diventato suo padre, Giuseppe, il cardiologo emodinamista che lo aveva conosciuto in un orfanotrofio in Cambogia e lo aveva fatto venire in Italia per essere operato al Bambino Gesù per una grave cardiopatia. E pensare che quello scricciolo di tre anni che pesava appena 9 chili era stato abbandonato proprio per la sua malattia e, data l’età, non aveva grandi speranze di poter diventare grande. Perché avendo già una vasculopatia polmonare nel giro di due-tre anni, senza intervento, quasi certamente sarebbe morto.


Sedici Natali fa il viaggio di Giuseppe e Monica in Cambogia per curare il piccolo, affetto da una grave cardiopatia. «Dal momento in cui lo abbiamo visto è stato nostro figlio» Oggi Den studia in Canada e sta bene

Giuseppe, medico del centro pediatrico e allora responsabile delle missioni internazionali, durante un viaggio nel 2008, insieme a sua moglie Monica, infermiera dell’ospedale, aveva conosciuto Den. Visitandolo «aveva detto che non c’era più nulla da fare – racconta adesso Monica – ma poi quella notte per quella diagnosi così netta non ha dormito. Così il giorno successivo siamo tornati con grandi difficoltà nell’orfanotrofio di Den, ad oltre 200 chilometri da dove eravamo noi a Takeo, per farlo venire in Italia e dargli una speranza». E «continuo a credere che qualcuno, da lassù, abbia guidato questa decisione». Den arrivò in Italia il 10 maggio di quell’anno e i primi esami continuavano a dare lo stesso lapidario esito: troppo pericoloso l’intervento. «Solo al terzo cateterismo cardiaco che Den subì – la voce di Monica si fa argentina – diede il via libera all’operazione».

A sentir parlare Monica c’è la sensazione che quella scelta, come quella successiva di adottare Den anche se la coppia aveva già tre figli adolescenti, è stata «la più giusta della nostra vita, fatta non per colmare qualche nostro vuoto, bensì per riempire tutti i vuoti della vita di Den». Il rischio per questo bimbo, infatti, dopo l’intervento riuscito e dopo i lunghi mesi in ospedale, sarebbe stato tornare in Cambogia in orfanotrofio, ma i farmaci che doveva prendere e ormai l’affetto che tutti nutrivano per lui ha portato Giuseppe e Monica «a salire su questa barca», come le disse il marito una sera, a tentare insomma l’avventura dell’adozione. A cominciare dall’aprirgli la porta della loro casa, parlando all’inizio a gesti perché Den conosceva solo il Khmer. «I primi tempi metteva in tasca il cibo per paura che qualcuno glielo portasse via – racconta – e si divertiva ad aprire il rubinetto per veder scorrere l’acqua, che in orfanotrofio in Cambogia non aveva».




Il racconto della madre, rimasta vedova nel 2011: «Visitandolo mio marito aveva detto che non c’era nulla da fare». Poi il “miracolo”

«Non è stato semplice – ammette oggi Monica – rimasta vedova nel 2011, perché solo io ero in età da adozione, avendo 47 anni, mio marito era più grande di me di 21 anni. Ma sono salita su quella barca e non me ne sono mai pentita». Anche il giudice che all’epoca li convocò per l’adozione gli disse che sarebbe stato impossibile. E soprattutto non capiva il motivo che aveva spinto questa coppia a quel gesto di grande generosità, definendo «esilarante » la richiesta. «Risposi al giudice – sorride ora Monica, ricordando le gomitate del marito con cui la invitava a non rispondere al magistrato – che io non volevo semplicemente un bambino cambogiano, ma quel bimbo e sarei arrivata anche in Cassazione per riuscirci».

Dopo grandi peripezie, non da ultimo «un viaggio della speranza» in Cambogia per avere tutti i documenti necessari, il 23 dicembre 2010 è arrivato finalmente «il nostro più bel regalo di Natale, le carte definitive che sancivano l’adozione speciale di Den, oggi un bel ragazzo di 16 anni pronto ad affrontare da settembre il quarto liceo in Canada con uno scambio culturale». Quel bambino, «se non avessimo aperto noi il nostro cuore, forse non lo avrebbe adottato nessuno. Sarebbe rimasto in ospedale fino a completa guarigione e poi sarebbe ritornato nel suo Paese, non si sa con quale futuro».

Sia Monica che Giuseppe, infatti, conoscevano bene la sua malattia cardiaca, i controlli a cui doveva essere periodicamente sottoposto (anche ora dopo molti anni), i farmaci da assumere. «Ma non ci siamo fatti spaventare dal percorso di cura che avevamo davanti, forse perché lo conoscevamo bene dopo anni in corsia». Monica fa una pausa, poi continua a raccontare: «Quando mi chiedono quanti figli ho, rispondo sempre quattro. O meglio tre gravidanze e una maternità, ma per me essere madre biologica o madre adottiva non fa differenza».

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