sabato 10 dicembre 2016
Inseguendo chi scappa senza pagare il conto con la giustizia. Latitanti presi dopo anni di ricerca, traditi dal desiderio di una vita normale
Squadra Catturandi, quei carabinieri a caccia di fantasmi
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Quando la chiamavano col suo nome antico, Dike, era l’ordine stesso, il cardine immobile che reggeva il resto, anche la volta celeste, e regolava ogni cosa, persino i movimenti del sole. Oggi che non ha più niente di mitizzato, la stessa idea di qualcosa di immutabile rimane tra le righe di un passaggio burocratico. I gradi di giudizio sono terminati, una sentenza diventa esecutiva. Il tribunale emette un ordine di esecuzione.

Il destinatario nel frattempo è scappato, si è reso irreperibile. L’ordine di esecuzione viene preso in carico dalla sezione Catturandi del Nucleo investigativo dei carabinieri. Le lancette dell’orologio per quella persona si fermano. Quello che farà a partire da quel momento, se ha cambiato vita oppure no, se per catturarlo occorreranno un mese o dieci anni... il seguito è irrilevante, non conta dal punto di vista giudiziario. Ogni cosa in compenso è utile per la cattura. La caratteristica di questo tipo di indagine è il grande lavoro di studio sulla persona ricercata.

«Capire chi si ha di fronte: è una persona pericolosa? Sa maneggiare le armi? Questo ci servirà per intervenire con la massima sicurezza possibile – dice il comandante della Catturandi, il capitano Marco Prosperi –. Quando prendiamo in carico un ordine di esecuzione non sappiamo niente di questa persona, è un nome su un fascicolo, poco più che un fantasma. Il nostro lavoro è dare forma, carne e ossa a questo fantasma. E cominciare a seguirne l’ombra. Così si riallacciano i fili troncati dal tempo, si stabilisce un’attività cronologica: cosa faceva questa persona prima? Come si muoveva? Cosa potrebbe fare ora? Lo studio del caso è forse la parte più importante del nostro lavoro o comunque quella ne garantisce il successo finale, perciò richiede molto tempo e va fatto in maniera minuziosa». La donna rimane sempre un classico da cercare, e qualcuno è stato preso seguendone i passi.

Qualcun altro era al casinò. Un altro ancora era andato a sedersi al tavolo del suo ristorante preferito a ordinare la zuppa di pesce (era così irrinunciabile da pagarla con anni di carcere? Forse)...Un amico fidato, la compagna, una passione, un vizio... e su tutto il tempo che passa... alla fine tutto tradisce... ma è soprattutto il desiderio di quotidianità, di voler tornare a avere una vita "normale". È un fatto, una legge che vale per chiunque, per le persone oneste come per i delinquenti... Così passano gli anni... si abbassa la guardia... non si pensa più che ci sia ancora qualcuno che può sentirti, un occhio che sta mettendo a fuoco tutti i tuoi spostamenti... semplicemente perché non ci si vuol più pensare. Se si è stranieri si torna al paese d’origine, ci si ricostruisce una cerchia di affetti e di relazioni, così da sentirsi più tranquilli, ma è proprio allora che i pericoli si moltiplicano. Allora può partire la chiamata sul cellulare che mai si sarebbe fatta altrimenti, si fa la strisciata fatale con la carta di credito. E in un attimo si chiude una partita di caccia durata anni, e si torna al tempo zero della sentenza da cui in realtà non ci si è mai mossi.


Blenard FeJzullai importava eroina dall’Afghanistan nello stesso anno in cui due aerei venivano dirottati contro le Twin Towers, usando per il traffico di eroina lo stesso metodo di comunicazione di Mohammed Atta, il pilota di uno di quegli aerei: la mail in bozza con un unico account (allora era il sistema all’avanguardia per non essere intercettati, oggi è archeologia informatica). Condannato a 12 anni nel 2006 è stato preso dalle forze speciali austriache a fine novembre di quest’anno (su indicazione della Catturandi che ne aveva ricostruito la ciclicità degli spostamenti come in un gioco enigmistico in cui unendo i puntini ne risulta evidente il disegno nascosto), Fejzullai aveva cura di cambiare i cellulari come i calzini: ogni giorno, per dieci anni. Ma quella volta soltanto nell’intera latitanza, telefonò prima per prenotare un albergo per la notte.


Non impiegare altro che telefoni usa e getta, niente carte di credito, né posta elettronica né whatsapp: vivere indefinitamente nella latitanza alla fine significa uscire dal tempo e regredire, se non all’età della pietra, perlomeno a quella della cantina e del pizzino. «Persone disposte a far questo per fortuna, non esistono più – dice Prosperi – In fin dei conti partiamo dal presupposto che uno delinque nella convinzione di poter vivere più agiatamente. Ma la latitanza costa, e si paga solo in contanti. Oltre alle risorse occorrono gli appoggi, il che significa la famiglia, come nel caso della criminalità organizzata, o una rete di persone costantemente al tuo servizio. Che però devono essere pagate. Allora, se non riusciamo a prendere un ricercato, facciamo in modo che non si goda i suoi soldi: gli leviamo gli appoggi, tagliamo i fondi, aumentiamo la possibilità che alla fine qualcuno tradisca.»


Ma non ci sono solo lo studio nel lavoro della Catturandi. Il momento in cui si scoprono le carte è quello di maggior rischio. Un criminale che riceve un’ordinanza di custodia cautelare non è detto che faccia tante storie, anzi: sa cos’ha fatto, che ci sarà un processo, si prepara, lì avrà ancora la possibilità di giocarsi le sue carte, non esclusa la fuga. Ma andare a prelevare qualcuno con un ordine di esecuzione di una sentenza, dopo anni, quando quella persona si è ricostruita una vita, metterla di fronte alla prospettiva senza appello di passare in carcere il prossimo periodo dell’esistenza... è tutta un’altra faccenda. Il suo viaggio è arrivato al capolinea, e non è detto che sia disposto a scendere. Le reazioni in quel momento possono essere le più imprevedibili: dal crollo psicologico al ricorso alla violenza.


«Quello è il momento in cui è vietato sbagliare, e la percentuale di successo dipende dal lavoro fatto prima, un lavoro lungo e costoso. – dice Prosperi – Lo Stato è disposto a investire, ma chiede un ritorno in termini di risultati. D’altro canto il nostro lavoro restituisce un significato a quello fatto dalla magistratura e dai colleghi prima di noi, che andrebbe altrimenti perduto. Così forse alla fine il tempo è davvero galantuomo. O forse semplicemente è fatto di memoria, il tempo. Ma la memoria siamo noi a dovercela mettere, con il nostro lavoro.»

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