venerdì 13 settembre 2024
Le fiamme hanno sprigionato fumi tossici che hanno impedito ai giovani di mettersi in salvo. Gli inquirenti indagano per incendio doloso. Il prorpietario ha denicato minacce
Il luogo della tragedia

Il luogo della tragedia - Fotogramma

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Quando si sono svegliati, il muro di fiamme era già così alto che impediva ogni possibilità di fuga dall’unica porta del magazzino. E per i tre giovanissimi cinesi non c’è stato nulla da fare: soffocati dai fumi velenosi sono morti soffocati. Li hanno trovati così i vigili del fuoco quando, dopo aver lottato a lungo con le fiamme che hanno devastato, l’altra notte a partire dalle 23, il magazzino in via Ermenegildo Cantoni, alla periferia ovest di Milano a poche centinaia di metri dalla tangenziale, sono riusciti a entrare nel magazzino della ditta che produce mobili e altri complementi d’arredo.
Sono aperte tutte le ipotesi sulla morte di Yinjie Liu un giovane di soli 17 anni nato ad Arzignano, della sorella Dong Jndan di 18 (ne avrebbe compiuti 19 tra pochi giorni e anche lei era nata in Veneto) e di un altro giovane di 24 anni Pan An che era un designer della ditta. Il magazzino in cui dormivano è stato avvolto dalle fiamme e per i ragazzi non c’è stato scampo. Il fuoco ha bloccato l’unica via d’uscita e inutile è risultato anche cercare scampo verso il retro e sulle scale. I fumi sprigionati dai materiali di cui erano costituiti i mobili, non hanno lasciato scampo. La ragazza è stata trovata accanto ai gradini, mentre il fratello e l’altro giovane erano poco distanti. Morto anche il loro cane, un pitbull.
L’ipotesi di reato degli inquirenti, guidati dal procuratore della Repubblica Marcello Viola e dal pm Luigi Luzi che coordinano le indagini affidate ai carabinieri guidati dal colonnello Antonio Coppola, è di incendio doloso. A spingere in questa direzione, la denuncia, presentata dal titolare dell’azienda (e zio delle due vittime più giovani), di minacce subite mercoledì e giovedì. Nel primo caso sarebbe stato l’uomo, titolare della «Li Junjun» che è subentrata da poco alla Wang il cui simbolo appare ancora sul portone, a essere stato avvicinato, mentre rientrava a casa nel pomeriggio di mercoledì, da un uomo (forse nordafricano) che gli avrebbe intimato di preparare 20mila euro. Per dare più forza alla richiesta, il malvivente avrebbe anche mostrato un coltello. Stessa scena poche ore più tardi, giovedì mattina. Questa volta a farne le spese sarebbe stata la moglie del proprietario affrontata a sua volta da un uomo la cui descrizione collima con quella fornita dal consorte, a pochi metri dalla ditta. L’uomo avrebbe reiterato la richiesta di denaro e mostrato l’arma. Gli investigatori stanno ora cercando di farsi strada tra le diverse possibilità: quella di un ricatto che provenga dall’interno della comunità cinese e la possibilità che ad architettare tutto sia stato un balordo che aveva deciso di approfittare dell’imprenditore cinese e abbia voluto (magari ignaro del fatto che dentro al magazzino ci fossero tre persone) mandare un messaggio. I carabinieri hanno acquisito anche le immagini di alcune telecamere che inquadrano la strada nelle immediate vicinanze della ditta.
I vigili del fuoco, peraltro, non hanno ancora stabilito al 100% che il rogo sia stato voluto, tanto che è intervenuto il Nucleo Investigazione antincendio della Lombardia, un gruppo specializzato. I primo sopralluoghi hanno permesso di chiarire che la zona più devastata è quella accanto al portone d’ingresso e alle finestre che si affacciano sulla strada. Ma la gran massa dei detriti non ha consentito di effettuare quei controlli mirati che permetteranno, si pensa già nei prossimi giorni, di dire una parola definitiva sulla genesi delle fiamme. L’individuazione del punto di origine del fuoco e la presenza di una eventuale accelerante, toglierebbe ogni dubbio. Un altro filone d’indagine, è portato avanti dai carabinieri del Nucleo Tutela del lavoro. Tocca a loro capire perché i ragazzi (che non risultano assunti) si trovassero nel magazzino.
Nella comunità cinese c'è dolore e sconcerto. Atti del genere - bruciare volontariamente delle persone dentro un locale - non fanno parte del modus operandi della criminalità cinese, peraltro in forte ridimensionamento da anni rispetto alle estorsioni che venivano perpetrate da alcune gang giovanili negli anni ‘90 e Duemila. «Un incidente oppure c'è del dolo? Cosa ci facevano lì i tre ragazzi di notte allo showroom? - scrive Francesco Wu, imprenditore della ristorazione e volto noto di Chinatown –. Speriamo non sia stato appiccato il fuoco al negozio per creare un danno materiale ai proprietari del showroom ma che poi sia andata peggio finendo con l’uccidere delle persone». I titolari dell'attività sono molto conosciuti dalla comunità cinese e sono residenti a Milano da vent'anni. Ex proprietari di un ristorante a Chinatown, con i proventi del quale hanno costituito una società che si occupava, appunto, di arredamenti per ristoranti e locali, e complementi d'arredo, e riforniva molti esercizi commerciali del quartiere Sarpi.
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