giovedì 9 novembre 2017
Il reato di aiuto al suicidio dal nostro legislatore e su questo (non altro) occorre una pronuncia dei giudici che devono continuare a verificare, caso per caso le azioni dell'imputato
Esiste il reato di aiuto al suicidio: su questo si pronunceranno i giudici
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Marco Cappato «rischia da 5 a 12 anni di carcere», ha fatto sapere l’associazione radicale Luca Coscioni di cui è tesoriere. «Se invece sarà assolto – prosegue il comunicato diffuso ieri – saremo tutti più liberi di scegliere» (come e quando morire, sottinteso). Parole certamente a effetto, ma difficilmente condivisibili sotto il profilo giuridico: fino infatti a quando il legislatore non dovesse abrogare questa norma, o la Corte costituzionale dichiararla in contrasto con la nostra Carta fondamentale, il reato resta. E i giudici di merito devono continuare a verificare, caso per caso, se le azioni dell’imputato hanno o meno integrato la violazione.

A loro un criterio di giudizio l’ha dato la Cassazione: «È sufficiente – si legge nella sentenza 3147 del 1998 – che l’agente abbia posto in essere, volontariamente e consapevolmente, un qualsiasi comportamento che abbia reso più agevole la realizzazione del suicidio ». È quanto fatto da Cappato? Sembra proprio di sì, visto che è stato egli stesso ad autodenunciarsi. Ma quand’anche i giudici rispondessero “no” dovrebbero motivare il verdetto su circostanze di quell’episodio specifico.

Compito delle magistrature territoriali, come già ricordato, è infatti quello di analizzare un caso concreto alla luce delle norme in vigore. Non “crearne” di inesistenti, o disapplicarne di esistenti. Ma ecco che la Coscioni va oltre, e, cercando di delegittimare l’articolo 580 del Codice penale, riporta telegraficamente e in grassetto il parere “orientato” di alcuni giuristi. «Norma su assistenza al suicidio illegittima», dice Marilisa D’Amico (costituzionalista). Ma, cercando nell'approfondimento in calce al testo le ragioni che fondano l’affermazione, si trovano solo indicazioni sugli organi a cui rivolgersi per tentare di far valere questo preteso “diritto a morire”.

«La persona può disporre della propria vita», afferma nel comunicato Gian Giacomo Pisotti (Corte appello Tribunale Cagliari). Ma la sua frase attinge a un’ordinanza di un tribunale (quello di Cagliari, che acconsentì alla morte di Walter Piludu): dunque di un organo che, come ricordato, avrebbe dovuto limitarsi a decidere su casi concreti, e non a fornire principi di diritto astrattamente applicabili ad altre situazioni. «Complesso normativo italiano in conflitto», denuncia Vladimiro Zagrebelsky (“Corte europea diritti umani”). Ma proprio la stessa Cedu, con sentenza 2346 del 29 aprile 2002, ha chiarito che l’articolo 2, titolato 'Diritto alla vita', «non può essere interpretato nel senso che esso tuteli anche l’aspetto negativo di tale diritto, inteso come diritto di morire ovvero come facoltà dell’individuo di autodeterminarsi alla morte». Alla luce di tutto ciò, appare dunque evidente che Cappato dovrà essere giudicato su una norma – il reato di aiuto nel suicidio – vigente (in Italia) e legittima (per l’Europa).

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