domenica 23 gennaio 2022
Quando la memoria è divisiva anche sulla casa Succede a Canicattì, per il giudice Livatino
La Regione vuole trasformare la casa in museo, la proprietaria si oppone

Ansa

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Non sempre la memoria delle vittime di mafia è memoria condivisa, che unisce nel ricordo di chi ha dato la vita e nell’impegno a trasformarlo in vita quotidiana. Alcune volte la memoria è divisiva, è rivendicazione, quasi accaparramento. L’ultimo caso, particolarmente doloroso, riguarda Rosario Livatino, il giudice ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e beatificato il 9 maggio 2021 come martire della Fede e della Giustizia. Motivo di divisione è la casa a Canicattì dove il giovane magistrato viveva, fino al giorno della sua morte, assieme ai genitori Vincenzo e Rosalia. Venerdì scorso viene reso noto che sarà acquisita dalla Regione Siciliana. Lo ha stabilito la Giunta regionale allo scopo di inserire l’immobile nella 'Rete delle case museo', che già comprende, ad esempio, la casa di Luigi Pirandello. La casa è rimasta identica a 32 anni fa. In particolare la stanza del magistrato, la sua scrivania con il Vangelo e la Costituzione, sintesi del suo essere magistrato e credente. In quello stesso palazzetto viveva il boss Giuseppe Di Caro, che definì Livatino «un 'santocchio', un inavvicinabile», parole citate nel decreto di beatificazione.

Ora la Giunta siciliana ha dato mandato al dipartimento dei Beni culturali e dell’identità siciliana di compiere gli atti necessari e al dipartimento regionale tecnico di determinare il valore dell’immobile. La casa venne, infatti, lasciata in eredità da Vincenzo Livatino alla “badante” Giuseppa Profita e alla sua famiglia che la rende disponibile alle visite ma solo su prenotazione. «La casa del giudice Livatino – sottolinea l’assessore dei Beni Culturali, Alberto Samonà – è un luogo simbolo che dà la più autentica testimonianza dell’assoluta normalità di vita di un gigante che a distanza di oltre trent’anni continua ad essere esempio per tutti diventando un faro per le vecchie e nuove generazioni». Un anno fa il Tar aveva confermato il vincolo di tutela culturale della Soprintendenza, respingendo il ricorso dei proprietari. Plaude all’iniziativa regionale l’associazione 'Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino' che, assieme all’ufficio diocesano del postulatore e alla Soprintendenza, aveva avviato una prima attività di catalogazione poi interrotta dalla proprietaria proprio dopo la sottoposizione al vincolo.

E ieri sempre dalla proprietaria è arrivata una durissima reazione. «La Casa del Giudice Livatino non è in vendita, non si può calpestare la volontà del papà del giudice assassinato». A sostegno della signora l’Associazione Casa Giudice Livatino, custode dell’abitazione, che si dice 'indignata' aggiungendo che «non consentirà di far trasformare Casa Livatino in un freddo museo». Purtroppo non è la prima volta che ci si divide sulla memoria di Livatino. Sono tante le associazioni e fondazioni, non solo in Sicilia, che ne portano il nome, rivendicando anche parentele lontane o inesistenti. Si discute anche sulla tomba di famiglia dove il giudice è sepolto. E addirittura in occasione della beatificazione c’è stata una sollevazione contro la proposta della Diocesi di trasferire la salma nella cattedrale di Agrigento. Risultato è che la figura di Livatino non è ancora diventata vero patrimonio della comunità del territorio, mentre la mafia ha rialzato la testa, guidata da boss che avevano voluto la sua morte o sui cui aveva indagato. Perché la mafia, invece, ha una granitica memoria condivisa.

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