mercoledì 14 luglio 2010
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Preparavano l’assalto ben nascosti nel Cavallo di Troia di una grossa impresa. I mafiosi calabresi ce l’avevano quasi fatta a mettersi sotto la cascata di euro per l’Expo 2015. «È stato ricostruito il tentativo di assorbire nel gruppo Perego importanti aziende lombarde del settore edile che versavano in condizione di difficoltà economiche, allo scopo di costruire apposite attività di impresa in grado di partecipare direttamente all’affidamento degli appalti per l’Expo». Lo sostengono gli inquirenti antimafia che ieri hanno colpito al cuore la “nuova” ’ndrangheta. La società guidata dal costruttore Ivano Perego, secondo gli investigatori è riconducibile alla cosca degli Strangio, incaricata dai clan calabresi di infiltrasi nei lavori pubblici. L’ultima grande operazione, la “Notte dei fiori di San Vito”, nel 1994 fruttò 150 ordinanze di custodia. Sedici anni dopo molto è cambiato. La storia dei clan è racchiusa in una informativa dei carabinieri della Lombardia: oltre 2.500 pagine di fatti, nomi, verifiche. Nella regione gli inquirenti hanno contato venti centrali malavitose in grado di spadroneggiare in una trentina di comuni tra Milano, Varese, Como e Pavia. Gli affiliati identificati sono 500, più del doppio sarebbero poi i fiancheggiatori. Di ciascuno negli archivi delle forze dell’ordine ci sono nomi, appartenenze, incarichi e perfino le ambizioni confidate agli amici del “Bar Pino”, quartier generale dei capibastone calabresi nella periferia milanese. Come “compare Nunzio”, quel Carmelo Novella fatto fuori il 14 luglio di due anni fa. Era lui “il supremo” della Lombardia. E si era messo in testa di sganciarsi dai cugini della “Provincia”, i boss della natia Calabria. La fine del suo piano autonomista fu ordinata proprio da “quelli di giù”. Un omicidio che secondo gli inquirenti «rinsaldò i legami delle cosche locali con quelle "madri" della Calabria».Al di sopra di tutto c’è “l’infinito”. E non è filosofia, ma il grado, il segno distintivo di chi sta al vertice. Come adepti di una religione arcaica i rampolli più spregiudicati ondeggiano tra i diagrammi dell’alta finanza e un disegno solo in apparenza infantile: “L’albero della Scienza”. Da ogni ramo pende un frutto chiamato “dote”. Ed è per quella che, a seconda dei casi, si può vivere o morire. Fino ad arrivare, un giorno, a cogliere il frutto più seducente, quello che i vecchi padrini chiamano “infinito”. Carabinieri e poliziotti li hanno seguiti passo passo per quattro anni. Uomini fantasma a caccia di altri fantasmi. Sono loro ad aver decodificato il nuovo vocabolario ’ndranghetista. «La dote è come un valore di merito che si conferisce ad un affiliato. Più è alto il valore dell’affiliato – spiegano i militari dell’Arma – più è alta la dote stessa, in quanto si passa da un grado ad un altro». Con la dote che «cresce in ordine di "pesantezza": i ramoscelli, inteso gli affiliati, hanno una dote più leggera del rifusto, il rifusto ha una dote più leggera del fusto e così via». Un modo come un altro per giustificare un modello di vita che di “infinito” ha solo la violenza.Uscire dal giro è pressoché impossibile. E non solo per chi come “compare Nunzio” voleva mettersi in proprio. Sull’albero che spiega l’universo ’ndranghetista c’è un posto per i giovani d’onore: «Non è un vero e proprio grado – precisano gli inquirenti -, ma una affiliazione per diritto di sangue, un titolo che viene assegnato al momento della nascita e che tocca ai figli degli ’ndranghetisti come buon auspicio affinché in futuro possano diventare uomini d’onore». Una possibilità a nessuno preclusa. Politici compresi. Quegli stessi, per dirla con il gip Giuseppe Gennari, coinvolti in «un rapporto sistematico di cointeressenze».
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