martedì 11 febbraio 2020
Calabria, l’ex sindaco di Rizziconi sotto scorta perché denunciò i clan, torna a parlare in pubblico Con lui, tanti ragazzi e magistrati in prima linea
L’ex sindaco di Rizziconi, Nino Bartuccio, durante le riprese di un programma Rai degli scorsi anni

L’ex sindaco di Rizziconi, Nino Bartuccio, durante le riprese di un programma Rai degli scorsi anni - Archivio

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Nino non parlava in pubblico nel suo paese Rizziconi da 68 mesi e tre giorni. Da quando lui e sei familiari erano finiti sotto scorta per le sue denunce contro il clan Crea, che domina questo paese della Piana di Gioia Tauro. Era scattata l’operazione Deus, da uno uno dei soprannomi del boss Teodoro Crea, detto appunto 'Dio onnipotente'.

Nino Bartuccio, sindaco corretto e pu-lito, aveva provato a opporsi alla cosca che aveva reagito facendolo sfiduciare dalla maggioranza dei consiglieri comunali, collusi o terrorizzati. Ma le sue denunce non si erano fermate, portando il 4 giugno 2014 a 16 arresti compreso Teodoro Crea, detto anche '’u Murcu' o '’u Toru'.

Da allora la sua vita è blindatissima, anche per la notoria violenza del clan. Ma oggi è una giornata davvero speciale. «Sono emozionato di parlare di nuovo in pubblico davanti al gonfalone del Comune». Nino è l’ospite più atteso di un’iniziativa organizzata insieme dall’amministrazione comunale e dalle istituzioni: Tribunale di Palmi, Commissariato di Gioia Tauro, Istituto comprensivo, Ordine degli avvocati. Il tema è 'Responsabilità, giustizia, legalità'.

Non era mai successo in questo paese, che per il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho «è un paese del medioevo, quando era il signore a decidere della vita e della morte dei propri sudditi ». Un paese dove, oltre a Nino Bartuccio e la sua famiglia, vivono sotto scorta altre sette persone: l’imprenditore Nino De Masi con cinque familiari, e l’altro imprenditore Pasquale Inzitari, scampato a un agguato il 27 luglio 2017, dopo che la ’ndrangheta gli aveva ucciso per vendetta il figlio diciottenne Francesco (storie che i lettori di Avvenire conoscono).

Quattordici scortati in un paese di meno di 8mila abitanti. Un paese dove il consiglio comunale è stato sciolto due volte per infiltrazione ’ndranghetista, e dove i sindaci non hanno mai finito il loro mandato. Ma ora l’aria sembra cambiata. L’auditorium della Casa Famiglia di Nazareth è pieno soprattutto di ragazzi. Ed è a loro che si rivolge il sindaco Alessandro Giovinazzo, eletto nell’ottobre 2018 dopo l’ultimo commissariamento per mafia. «Si pensa che sia giusta la legge del taglione ma è giustizia da Far West. Le leggi non sono una gabbia che ci soffoca, senza si vivrebbe senza vera libertà». Poi una certezza. «Abbiamo pensato di essere abbandonati dalle istituzioni, invece sono vicine a noi». Infine un impegno forte. «Noi la testa l’abbiamo alzata, non abbiamo paura di niente e di nessuno.

Faremo il nostro dovere rispettando le leggi». Dal vescovo di Oppido-Palmi, monsignor Francesco Milito, arriva una secca sferzata. «A nessuno è lecito di prevaricare, si chiami ’ndrangheta o come volete. No, non è lecito!», ripete scandendo le parole. Anche il vescovo si rivolge ai ragazzi, ma anche ai genitori. «Legalità è camminare nella giusta direzione, essere responsabili. La giustizia è la consapevolezza dei dove- ri che si hanno verso l’altro. Si impara in famiglia. Possono aiutare Chiesa e scuola, ma è lì il fondamento». Parole importanti dove la ’ndrangheta si basa proprio su un concetto distorto di famiglia. Una dichiarazione di fiducia. E dalla magistratura, coi suoi massimi rappresentanti, arriva una risposta positiva. «Siamo contenti di tenere a battesimo un percorso che deve coinvolgerci tutti – assicura la presidente del Tribunale di Palmi, Concettina Epifanio –. Vi prometto che verrò altre volte, anche a scuola ».

E proprio ai ragazzi lascia una riflessione. «Dio dopo l’uccisione di Abele chiede a Caino: 'Dove è tuo fratello?'. Spesso non rispondiamo a questa domanda. È omertà, una piaga di questa terra. Ma se non rispondiamo, nulla cambierà. Dobbiamo seguire l’esempio di Bartuccio che sta vivendo nella sua carne cosa voglia dire non voltarsi dall’altra parte. È un prezzo da pagare, ma ne vale la pena perché ne va di mezzo l’umanità. Con l’impegno di tutti ce la faremo». E dal procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza («Sono stato allievo di Paolo Borsellino», ricorda commosso, «a da più di venti anni non mi sottraggo al dovere morale di incontrare gli studenti»), viene ai ragazzi una 'lezione' sulla mafia. «Legalità non è solo rispetto delle leggi ma soprattutto rifiuto dei privilegi, rispettare i diritti degli altri, non fare i più furbi».

E allora, insiste, «quando ci si rivolge a un mafioso per risolvere un problema, firmiamo una cambiale in bianco perché prima o poi ci chiederà qualcosa in cambio». Perché, avverte, «la mafia è un concentrato di dominio anche culturale, perché costringe fin da bambini a subire dei valori di una subcultura mafiosa». È il caso soprattutto delle donne «alle quali la ’ndrangheta vieta addirittura il diritto di innamorarsi. E se si ribellano, pagano con la vita o col ricatto sui figli » . Per questo, è il suo invito ai ragazzi, « l’omertà va rifiutata, decidete fin da piccoli di stare dalla parte dei diritti e non di chi li calpesta » . È quello che ha fatto Nino Bartuccio. «Non sono un eroe – spiega mentre i ragazzi lo ascoltano in un profondo silenzio –. E soprattutto non sono un 'infame'. Sono una persona perbene, una persona normale. Non ho fatto niente di straordinario.

Non lo è denunciare le cose che vanno contro la legge. Forse però un tempo non era considerato normale». Racconta ai ragazzi, sempre più attenti, le aggressioni a lui, al figlio minorenne e al padre da parte esponenti delle famiglie ’ndranghetiste. «Non sono andato dagli 'amici' per risolvere la questione ma dai carabinieri a denunciare. Un anziano mi disse: 'Non sei stato da '’u Murcu'?'. Gli ho risposto: 'No, sono stato dal maresciallo'».

Eppure, insiste Nino, «lo rifarei cento volte. Sono sempre stato un uomo libero e questo mi consente di guardare in faccia mia moglie e i miei figli. Avrei compromesso la loro libertà. Sono certo che anche i vostri genitori non vogliono lasciare il futuro in mano alla ’ndrangheta». È il messaggio positivo di Nino anche se, avverte, «a Rizziconi ci sono ancora negazionisti che dicono che i Crea sono persone per bene. Ma se i mafiosi sanno che i cittadini denunciano e non fanno i 'lecchini', questi fatti non accadranno più. Anche se sotto scorta, non guardateci come persone tristi, siamo più liberi di tanti altri. La mia speranza è che la nostra condizione possa finire perché saremo protetti da un esercito di cittadini».

Il lungo applauso, le strette di mano, gli abbracci, i selfie, dicono che molti si stanno arruolando. Il primo passo di Rizziconi verso la liberazione dalla violenza ’ ndranghetista è stato fatto. I prossimi saranno l’intitolazione di due strade a Francesco Inzitari, vittima innocente della ’ ndrangheta, e al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e la ristrutturazione del parco giochi realizzato anni fa dai commissari su un terreno confiscato a Teodoro Crea, ma molto poco utilizzato.

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