
IMAGOECONOMICA
«Avere cura della democrazia». Perché «una democrazia senza popolo sarebbe una democrazia di fantasmi». Così Sergio Mattarella si rivolgeva alle Alte cariche, nella cerimonia degli auguri natalizi al Quirinale.
Una politica che, dopo essersele suonate si santa ragione, riesce a portare al voto meno del 64% degli aventi diritto come nel settembre 2022 (9 punti in meno rispetto al 2018) si interroga sulla legge elettorale anche per questo. E i segnali successivi venuti dal voto regionale sono anche peggiori, con un’affluenza precipitata a percentuali minoritarie, dato confermato nel giugno scorso anche al voto europeo: per la prima volta in una competizione nazionale è andato a votare meno di un cittadino su due. L’Italia, così, da sempre ai primi posti per partecipazione al voto ha invertito la rotta ed è precipitata nel 2022 ben al di sotto della media europea.
Se ne parla poco, nel dibattito pubblico, perché la legge elettorale non scalda i cuori degli elettori e e nemmeno gli algoritmi dei social, ma l’argomento, sotto traccia, è presente eccome nell’agenda dei partiti. Costretto a occuparsene il centrodestra, che ha dovuto accantonare la sua proposta sul premierato - al momento - proprio per la necessità di trovare la “quadra” sulla legge elettorale, tutta da ridisegnare ancor prima di parlare di elezione diretta, perché il sistema possa stare in piedi. Ma costretti a occuparsene sono anche i partiti di opposizione che non trovano un’intesa sui programmi e ora si dividono sul cosiddetto “lodo Franceschini”.
La proposta dell’ex ministro della Cultura si muove dentro lo schema dell’attuale legge elettorale, il “Rosatellum”, dal nome del proponente Ettore Rosato, che ha un’impostazione basata su una percentuale prevalente di seggi (oltre il 60%) attribuiti tramite il proporzionale, attraverso liste bloccate dei partiti. L’idea di Franceschini - spiegata a Repubblica - fa leva su questo, per togliersi dalla testa, stanti le attuali divisioni, di dar vita a un nuovo Ulivo.
Per battere il centrodestra si vada al voto ognuno per conto suo (magari con un nuovo partito al centro) utilizzando per la parte restante dei seggi, attribuiti con il maggioritario uninominale, una sorta di desistenza. L’adesione di Giuseppe Conte all’idea (oltre che dei centristi Renzi e Calenda) è stata vista con fastidio dagli altri, come una sorta di scappatoia ricercata per sfuggire ancora al confronto. Ma ora, dopo le perplessità di Elly Schlein e la netta contrarietà di Avs è Romano Prodi a metterci sopra una pietra tombale. Chi più di lui, d’altronde, è titolato a parlare di Ulivo e desistenza? «Certo, l’Ulivo non si potrebbe rifare», ammette Prodi. Ma mettere d’accordo partiti così eterogenei non solo si può, si deve: «Sono i problemi del riformismo», dice. Quanto all’idea di Franceschini, «se scriviamo oggi che dobbiamo andare al voto senza avere un’idea, anzi che dobbiamo proprio evitare di avere un’idea in comune, si possono anche vincere le elezioni, ma si uccide il Paese», avverte. Per cui si tratta, per Prodi, di «cercare quattro grandi problemi su cui trovare una visione comune».
Come se fosse facile. Per il centrodestra che un’alleanza ce l’ha, c’è invece il problema di trovare una piattaforma valida che apra la strada alla riforma costituzionale. Ma nel ragionare su una nuova legge elettorale l’alleanza del governo Meloni ha ben chiaro, ancor più dopo le parole di Franceschini, che cosa non deve essere consentito in questo sistema di voto: la possibilità di tenersi le mani libere per allearsi solo dopo il voto. «Non saremo certo noi a togliere le castagne dal fuoco alle opposizioni», ragiona una fonte autorevole dentro Forza Italia. Posto questo limite, però, il partito azzurro, al pari degli altri, conviene su questa voglia di proporzionale che ritorna. L’idea su cui si sta ragionando, anzi, nel centrodestra, è proprio quella di un sistema proporzionale in cui al posto della parte maggioritaria del Rosatellum si inserisca un premio di maggioranza del 15% alla coalizione vincente (che però dovrebbe superare la soglia del 40% in entrambi i rami del Parlamento).
Quindi: proporzionale sì, ma con vincolo di coalizione. Quanto al voto di preferenza e alle liste bloccate c’è una proposta La Russa che prevede i soli capolista “bloccati” e due voti di preferenza sugli altri in lista. Una proposta però che non piace agli alleati, perché, allo stato attuale, solo Pd e FdI avrebbero possibilità reali di eleggere candidati in lista, oltre i capolista, con gli altri, nei partiti alleati, condannati di fatto al ruolo di comparse.
Si fa strada quindi un’altra idea, come punto di mediazione fra i poli, quella di rispolverare, riveduto e corretto, il “Mattarellum”, una legge che ha funzionato, che potrebbe piacere al centrosinistra, anche solo ricordando chi la promosse, e potrebbe piacere anche al centrodestra, che ha vinto due volte su tre (nel 1994 e nel 2001) con questo sistema, che ha mostrato di funzionare: «Il 75% di seggi uninominali, assegnati con il maggioritario, e 25 con il proporzionale, per fare in modo che i partiti possano contarsi è un’idea di cui si parla, sia fra i giuristi sia fra i responsabili dei partiti», conferma Francesco Clementi, costituzionalista alla Sapienza, dove dirige il Master in Scienze elettorali e del governo. E d’altronde nel 2020, quando la leadership del centrodestra era contesa, sia Meloni che Salvini mostrarono interesse verso questo sistema di voto. «Naturalmente il Mattarellum sarebbe la base di partenza, poi si tratterebbe di adattarlo, anche alla luce dei pronunciamenti della Consulta intervenuti», conclude Clementi.
Ma, per tornare al campanello d’allarme di Mattarella sul non-voto questa voglia di aumentare l’offerta di proposte politiche che attraversa entrambi i poli, può trovare nel proporzionale un modo per riavvicinare i cittadini alle urne? Per Nando Pagnoncelli «può servire, ma in caso di malfunzionamento può anche diventare un boomerang, al voto successivo». Perché, spiega il fondatore di Ipsos, «ormai si è affermata l’idea, anche se non trova riscontro nella Costituzione di una democrazia parlamentare come è la nostra (almeno finché non passerà il premierato), che si vada al voto per eleggere il governo. E allora, come insegna la vicenda dell’alleanza Lega-M5s, stabilire alleanze dopo il voto è penalizzante per chi lo fa e può creare disaffezione al voto successivo». Altrettanto vale per le preferenze.
«A loro volta possono riavvicinare i cittadini al voto. Ma il punto vero è la credibilità da restituire all’impegno politico, e la responsabilità dell’elettore. Un cittadino poco appassionato di politica e amante delle scorciatoie, farebbe un uso pessimo delle preferenze. Perciò il compito più importante, soprattutto per i cattolici, è lavorare alla formazione, all’educazione verso l’impegno politico, come sollecitato anche dai pastori della Chiesa. Solo così - conclude Pagnoncelli - sarà possibile, con strumenti nuovi, invertire la rotta nella partecipazione al voto».
Clementi concorda: «Una nuova legge elettorale deve superare due test. Il primo è quello “Mattarella” per incentivare la partecipazione. Il secondo lo chiamerei “Ruffilli”, - il giurista ucciso dalle Br nel 1988, ndr - cioè deve offrire ai cittadini di poter scegliere un’alleanza di governo». Ma la politica come guerra non piace ai cittadini: «Come dicono Pitruzzella e Lippolis, abbiamo bisogno di un bipolarismo mite, ma non prudente, che si basi sulle soluzioni dei problemi e non sulla propaganda».