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Quando in tv lo abbiamo visto raccontarci il Donbass o l’Afghanistan, l’epidemia di Ebola o il soccorso in mare dei migranti, abbiamo sempre pensato fosse “solo” uno dei tanti bravi inviati Rai che affrontano viaggi e rischi per garantire a tutti il bene primario dell’informazione. Un giorno di qualche anno fa ci siamo incontrati a Trastevere nel cortile della Comunità di Sant’Egidio, aspettando la visita dell’allora segretario di stato Mike Pompeo. Qualche chiacchiera, interessi comuni, il pacifismo raccontato da chi la guerra sa davvero cos’è. E li è arrivata la scoperta: Nico Piro, inviato di guerra del Tg3, procede con un’andatura dondolante trascinando i passi. Una camminata incerta che non ti aspetti da un cronista che gira il mondo. Così, quando ha urtato col piede un’aiuola, rischiando di perdere l’equilibrio, ho esitato. Non sapendo se dovevo sorreggerlo, oppure avrei fatto qualcosa di eccessivo e sgradito.
Perché Nico Piro, nato 54 anni fa a Salerno, sposato e con due figli, è senza dubbio un giornalista di razza, con una carriera di scoop e premi. Quello che lo distingue è che è riuscito a realizzare il suo sogno professionale nonostante la sua disabilità motoria: la spina bifida. E poter dire, con la forza dei fatti, che è un giornalista, non un disabile: «Io non sono la mano che mi manca o il bastone che mi regge. Io – rivendica - sono le mie idee, la mia parola, il mio sguardo e il mio spirito, la mia forza o la mia debolezza d’animo. Io sono io, a prescindere da quello che vedete, dai limiti che pensate che io abbia senza conoscermi».
E allora il suo Uno strano dono - Storia di un giornalista di guerra che ha imparato a far pace con la disabilità, 230 pagine, edito da Solferino, è un mix di biografia, diario di viaggi e – forse soprattutto - pamphlet polemico in cui ha deciso, non senza sofferenza, di mettersi a nudo. Un racconto personale, fluido e coinvolgente, che è anche una denuncia civile e politica di come la società si rapporta al mondo della disabilità, in equilibrio tra pietismo ed esclusione.

Freetown, Sierra Leone - -
«Sono nato così, morirò così – dice – e qualsiasi cosa abbia fatto nella mia vita, l’ho sempre fatta così come sono. E credetemi: ho messo la faccia dove molti di voi normali non mettereste nemmeno i piedi». Lo “strano dono” del titolo è la sua disabilità, con cui si confronta da anni tra cure, fisioterapie, palestre. Per tenerla a bada e tirare fuori il massimo dal suo fisico problematico. Un dono che gli ha fatto apprezzare la vita per viverla al meglio, in una battaglia quotidiana - l’unica che si permette da pacifista - contro due nemici: i pregiudizi culturali e le inefficienze del servizio socio-sanitario. Una lotta vinta con tenacia e forza d’animo invidiabili, che può mostrare - a tanti come lui - che i limiti ai nostri sogni non sono invalicabili.
Coi pregiudizi sui disabili, che lui chiama «razzismo», Nico Piro impatta traumaticamente sul lavoro il giorno che può partire per l’Afghanistan. «Preparati Nico, ci sarà da correre a Kabul», gli dice una collega. «Vuole fare l’inviato di guerra ma non si regge nemmeno in piedi», sussurra un’altra credendo di non essere sentita. Parole come pietre. «Da quella velenosa frase mi sarà chiaro che per difendermi potevo usare solo una cosa: la qualità e la profondità del mio lavoro». Nico Piro vuole essere valutato come giornalista. Punto. «Nel migliore dei casi il disabile diventa una decorazione aziendale».
Il problema però non c’è solo nelle dinamiche aziendali della testata, spiega, ma anche nella cultura di massa. «In televisione quanti concorrenti sordi ricordate in un quiz? Quanti amputati al Grande Fratello?». Nessun esplicito messaggio discriminatorio, in tivù, piuttosto un’immagine selettiva della realtà. «È un razzismo silente che non fa scandalo e non si nota. Qualcuno lo chiama “abilismo”». Piro cita come esempio Master Chef: all’inizio di ogni sessione di gara tra cuochi, quando scatta il cronometro, i concorrenti devono correre per i pochi metri dalla dispensa al tavolo di lavoro. Una manciata di secondi ininfluente, che però penalizzerebbero ogni disabile motorio, dunque tagliati fuori dal programma: «La corsa in dispensa è solo un espediente per dare un tocco di adrenalina al pubblico a casa». Che però vanifica «il rispetto della diversità e le speranze di inclusione».
Afghanistan - -
Piro da inviato Rai ha fatto servizi tosti per chi ha gambe normali. Come in Sierra Leone, per raccontare l’epidemia di Ebola nell’ospedale di Emergency. Chiede al fondatore, lo scomparso Gino Strada, di andare nella zona rossa, allora la zona più contaminata del mondo. Il chirurgo lo squadra: «Ci vai! Ti mettiamo vicino Jacob che, se c’è bisogno, ti acchiappa». A Mosca è quasi altrettanto rischioso l’attraversamento quotidiano di Suschevsky Val, dall’albergo alla sede di corrispondenza Rai, un vialone a tre corsie per senso di marcia. Ci sono da calcolare i tempi del semaforo e l’asfalto viscido per il ghiaccio. In ogni luogo poi c’è la difficoltà degli stand-up, come si dice in gergo tv, dove l’inviato racconta in piedi con lo sfondo della notizia. Serve il posto giusto, possibilmente un appoggio per potersi concentrare sulla diretta e non sull’equilibrio.
Poi c’è tutto il peso dell’inefficienza e dell’arretratezza sanitaria. «Gli unici strumenti previsti dal quadro normativo italiano sono pensati per sottrarre il disabile alle fatiche della vita, quindi per risparmiargli la normalità, non per aiutarlo vivere appieno. È il decrepito approccio italiano alla disabilità: non esistono strumenti per integrare il lavoratore disabile, ma solo per metterlo in una bolla. Un successo negli anni ‘70, un fallimento oggi». Un sistema per anni sfruttato in modo cinico: «L’epoca degli abusi dei congedi e delle pensioni di invalidità non è stata un’azione individuale di singoli truffatori. Il potere politico li ha usati per raccogliere consenso e, spesso, per dare risposte sbagliate a problemi reali, come la crisi dell’occupazione al Sud.
Come ha fatto a farcela? «Se il disabile trova la forza dentro di sé e intorno gli vengono offerte delle condizioni materiali minime, può rimandare al mittente il pacco contenente l’invisibilità, smettere di concentrarsi sui suoi limiti e dedicarsi invece alle strategie per superarli, per non esserne vittima, affinché non siano un ostacolo tra se stesso e le cose che da fare». Una prova è stato anche questo libro: «È stato molto difficile pubblicarlo – spiega – perché volevo metterci dentro qualcosa di me, della mia esperienza personale di “disabile di successo”, ma avevo paura dell’autoreferenzialità. Non è una questione di riservatezza. Il messaggio volevo fosse generalizzabile. Quando si dice che il personale è politico».
Così, quando racconta una delle sue tante sfide un po’ folli - imbarcarsi sulla nave di una ong che fa soccorso migranti – capisco che quella volta a Trastevere ho fatto, senza saperlo, la cosa giusta. Agli operatori in nave che guardavano perplessi il giornalista che già a terra camminava come fosse su una barca nella tempesta, Nico Piro disse: «Vi chiedo di non preoccuparvi per me e soprattutto di non offrirmi aiuto. Se ne ho bisogno, ve lo chiedo, grazie».