mercoledì 13 dicembre 2023
L'attacco - con retromarcia - di Meloni e la freddezza di Schlein su eventuali incarichi europei sono due lati della stessa medaglia
Draghi con Von der Leyen

Draghi con Von der Leyen - Ansa

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Lo scivolone di Giorgia Meloni su Mario Draghi sorprende non soltanto per toni e contenuti, ma anche per la rapidità con cui la premier in carica, subito dopo aver pronunciato la frase infelice, ha “cercato” i cronisti per rettificare e correggere il tiro. Non solo: non sufficientemente rassicurata dalla retromarcia, ha anche cercato e ottenuto un colloquio con il suo predecessore per archiviare del tutto l’incidente. Il doppio registro - l’attacco dal sen fuggito e il repentino dietrofront - esprimono plasticamente l’ambivalenza che la figura di Mario Draghi continua ad assumere per la politica italiana. Da un lato resta la perenne tentazione di additarlo, specie in piena bagarre politica ed elettorale, come incarnazione di quella «tecnocrazia» che il bipopulismo all’italiana mette all’indice quando conviene. D’altro canto, però, permane la volontà di non minarne l’autorevolezza sulla scena europea e internazionale. Nello specifico, poi, per Meloni l’attacco a Draghi è controproducente anche per altri motivi: intanto perché i suoi due alleati hanno governato con lui e ne hanno condiviso le scelte, ma anche perché l’ex premier a Meloni ha garantito un avvio “sereno” del nuovo esecutivo sul fronte della lotta al Covid, dell’approvvigionamento energetico e degli equilibri di bilancio. È noto inoltre che la premier e il suo predecessore hanno scambi di opinioni non così rarefatti, sebbene non comunicati all’esterno.

Il fatto curioso è che il medesimo imbarazzo Mario Draghi lo crea a sinistra, a quel Pd che convintamente ne ha sostenuto l’azione di governo. Certo, era il Pd lettiano e non schleiniano. Eppure, la dinamica è simile a quella che si verifica a destra. Si tende a tutelare Draghi e anche a blindarlo quando la destra prova a metterlo in discussione, ma allo stesso tempo si sta ben attenti a non farsi associare al «super-banchiere». Persino quando si paventa l’idea che l’ex premier possa diventare presidente della Commissione o del Consiglio Ue, scenario che per i dem sarebbe tra i più rosei considerando l’attuale situazione politica italiana ed europea, la segretaria del Pd Elly Schlein si trincera nella prudenza tipica di chi ha paura di compromettersi troppo con un sostegno pubblico.

I motivi di questo «imbarazzo» che Draghi crea a destra e sinistra sono probabilmente imputabili alle dinamiche politiche contemporanee, sdraiate su slogan e proclami che già in premessa si sa essere irrealizzabili. E alla consapevolezza che però l’azione di governo - nazionale, europea e sovranazionale - richiede una dose di realismo e pragmatismo che l’ex capo della Bce, da tecnico, ha potuto quasi ostentare, non dovendo temere contraccolpi elettorali. Col senno del poi, è forse proprio questo «imbarazzo» dei partiti rispetto al profilo di Draghi ad averne ostacolato l’ascesa al Colle più alto.

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