sabato 5 novembre 2022
Federica Paccaferri racconta in un libro le vicende del processo per l'omicidio di Pamela Mastropietro, avvenuto a Macerata nel 2019, e il suo dramma
"Io, l'interprete di Oseghale, e il coraggio di restare al mio posto"
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Quale impatto psicologico e morale comporta “dare voce”, durante un processo, a uno spacciatore di droga accusato dello stupro e dell’omicidio di una ragazza di 18 anni di cui avrebbe anche vilipeso, smembrato e occultato il cadavere? Un compito tremendo interagire, ascoltare, “capire” e tradurre dall'inglese all'italiano le “ragioni” di un presunto efferato assassino. Tremendo ma necessario per consentire il sacrosanto diritto alla difesa e quindi il corso della Giustizia.

Ma un caro prezzo umano ed emotivo ha dovuto pagare la mediatrice culturale Federica Paccaferri che subito dopo aver accettato dal Tribunale di Macerata l’incarico di fare da interprete a Innocent Oseghale, cittadino nigeriano di 29 anni alla sbarra per il delitto di Pamela Mastropietro, ha dovuto affrontare, una di seguito all’altra, la morte prematura dell’amato padre, le conseguenze di un grave incidente stradale in cui è rimasta viva per miracolo e, infine, le restrizioni imposte dal “lockdown” e dalla pandemia. Un “filo rosso del destino”, un’incredibile catena di coincidenze che avrebbero fiaccato chiunque. Ma non Federica che, nonostante tutto, è uscita dal tunnell e ha raccontato la sua personale tempesta in un libro dal titolo “Il coraggio di restare” (edizioni Nisroch). In Corte d’Assise era stato rievocato il feroce delitto avvenuto nella cittadina marchigiana il 29 gennaio del 2018 (i resti della giovane, uccisa in un appartanmento del centro, furono rinvenuti dentro due trolley su una strada di campagna): un processo mediatico che dal 14 febbraio 2019 tenne sotto pressione per 80 giorni giudici, pm, avvocati, testimoni e l’interprete. Oseghale venne condannato in primo grado all’ergastolo.

E accadde che, di fronte alle avversità del momento, per non essere travolta dagli avvenimenti, il primo impegno della professionista maceratese fu quello di dominare le emozioni e la sua coscienza. Ma non poteva bastare. E per non scivolare nella disperazione Federica ha avuto bisogno di scrivere. È stata una specie di terapia. E, infatti, quelle 180 pagine rappresentano, spiega, «una finestra su cui ho potuto gridare nei momenti di un dolore indicibile». Così è riuscita ad andare avanti e a superare anche l'altro dolore in cui si è dovuta imbattere suo malgrado: la descrizione minuziosa del delitto, i risultati dell’autopsia, le foto del cadavere smembrato, i volti affranti dei familiari della vittima. «Entrando in aula, nella prima udienza, fui colpita dalla gabbia in cui era rinchiuso Oseghale che aveva lo sguardo abbassato: provai un tonfo al cuore, “ecco il mostro“, pensai, “a fianco del quale dovrò sedermi”. Iniziai a tremare, l’emozione salì alle stelle, temevo che l’imputato potesse assumere atteggiamenti ribelli e sfacciati nei miei confronti, evitando di collaborare». Ma così non fu. Anche per merito della sua traduttrice che non si lasciò sfuggire nemmeno un dettaglio del dibattimento restituendolo all’imputato come se fosse lui stesso ad ascoltare e a parlare. Perché così doveva essere.

Federica Paccaferri racconta anche del regalo che fece alla mamma di Pamela in aula, subito dopo la lettura della sentenza: il rosario appartenuto al papà nei giorni della malattia che lo ha stroncato. Quell’oggetto, così prezioso per lei, ha spinto la signora Alessandra Verni ad avvicinarsi alla fede e a partecipare a un pellegrinaggio mariano. «Ero felice che quel gesto spontaneo le fosse stato d’aiuto – commenta Federica – e lo è stato di sicuro anche per me»


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