venerdì 11 novembre 2022
Viaggio nel laboratorio Armenise-Harvard dell'Istituto di Candiolo, a pochi passi da Torino. L'immunologa Luigia Pace: «La nostra scoperta nata dagli studi sui vaccini per il Covid»
L'immunologa Luigia Pace

L'immunologa Luigia Pace

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Funziona come un cavallo di Troia. Si avvale di farmaci immunoterapici per eludere le difese del cancro e porta in circolo le istruzioni perché il sistema immunitario riconosca il nemico e lo aggredisca in modo più selettivo e potente di quanto sperimentato sinora, innescando anche una memoria capace di reagire, a distanza di anni, ad eventuali recidive della malattia. È questa la potenzialità del vaccino anti-cancro studiato nel laboratorio di Immunoregolazione Armenise-Harvard dell’Italian Institute for Genomic Medicine che ha sede nell’Istituto oncologico di Candiolo, alle porte di Torino, in collaborazione con la biotech italo-svizzera Nouscom.

Sperimentato per la prima volta negli Stati Uniti, dove si sta concludendo la fase 1, su 12 pazienti affetti da un sottotipo di cancro del colon, con metastasi diffuse, e non più rispondenti ad alcuna terapia, l’antidoto ha ottenuto risposte straordinarie: a distanza di più di due anni dall’inoculazione, 9 pazienti stanno bene; in alcuni al momento non c’è più traccia della malattia, in altri il male è regredito. Solo 3 non ce l’hanno fatta: «Il risultato ha superato le nostre aspettative – dice Luigia Pace, direttrice del laboratorio Armenise-Harvard -; ora stiamo cercando anche di capire perché alcune persone non ce l’hanno fatta». Presto la sperimentazione del vaccino potrebbe arrivare anche negli ospedali italiani. «Lo studio ci è stato presentato – conferma l'Aifa ad Avvenire - ed è in valutazione da parte dell'Istituto superiore di sanità (Commissione di fase I), trattandosi di uno studio di fase I-II».

Eppure in questa scoperta, come spesso accade, c’è della casualità. «In parte è così – sorride Pace, romana, immunologa di formazione, un cervello di ritorno con enormi prospettive, dopo aver maturato importanti esperienze in Francia e Germania -. Dirò la verità: stavamo studiando i meccanismi della risposta immunitaria indotta dalle infezioni e dai vaccini Rna messaggero contro il Sars-CoV-2. La nostra attenzione era focalizzata su una particolare popolazione di linfociti T, e quindi del nostro sistema immunitario, e sulla loro capacità di aggredire il virus. Ci siamo detti: perché non proviamo a fare altrettanto con i tumori? E cioè ad utilizzare un vaccino che potenzi e renda permanente l’effetto dei farmaci immunoterapici contro il cancro?». Certo, occorre andarci cauti, serviranno molte altre ricerche per confermare le valutazioni iniziali. Ma i risultati della sperimentazione di fase 1 hanno destato stupore in tutto il mondo, e sono stati illustrati su Science Translational Medicine.

Una delle più importanti speranze contro il cancro è dunque nata in piena pandemia?
Direi di sì, grazie ad un grande sforzo di più attori: dall’Istituto di Candiolo, che ha “arruolato” 400 persone, ad Airc, Fondazione Armenise, Compagnia San Paolo, fino al ministero della Salute. Abbiamo utilizzato il patrimonio di conoscenze raccolto sui meccanismi della lotta ai virus per combattere il cancro. E andiamo avanti continuando a non perdere di vista i virus. L’ideale sarebbe indirizzare la risposta che utilizziamo contro questi agenti infettivi, come il virus dell’influenza, che viene eliminato dopo una o due settimane, anche contro i tumori. Perché il cancro, a differenza dei virus, cresce in continuazione e il sistema immunitario esaurisce progressivamente la sua azione di difesa.

Eppure siete riusciti a guidare i linfociti T con una precisione senza precedenti dando loro una prospettiva a “lungo termine”… Ma come agiscono queste cellule?
Dopo gli anticorpi, i linfociti T rappresentano la seconda linea di difesa del sistema immunitario. Alcuni linfociti T sono anche definiti “killer” perché, dotati di un recettore chiamato Tcr, sono capaci di riconoscere la presenza delle mutazioni delle molecole ostili nelle cellule tumorali, e distruggerle. Non sempre, però, riescono a scovare il cancro, il quale è abilissimo a camuffarsi. Abbiamo allora preparato un vaccino per istruire il sistema immunitario a riconoscere il nemico.

Come avete fatto?
La nostra sperimentazione ha riguardato il cancro del colon. Il vaccino è stato associato a farmaci immunoterapici specifici per bloccare i freni inibitori, quelli che il cancro utilizza per “spegnere” la risposta immunitaria. Abbiamo usato un adenovirus di gorilla, reso innocuo, incaricato di traghettare diverse proteine, divenute disfunzionali, nelle cellule tumorali contro cui indirizzare il sistema immunitario. Il nostro preparato ha le sembianze di un virus. Il sistema immunitario, riconoscendolo come tale, si attiva e lo colpisce.

Perché avete scelto un vaccino a vettore virale?
In realtà si possono utilizzare vaccini a Rna o a vettore virale. Quelli Rna di Pfizer-BionTech e Moderna, efficaci contro il Sars-CoV-2, nascono proprio dalla lotta contro i tumori, in particolare contro il melanoma. Possono essere utilizzati entrambi.

Qual è il vantaggio dell’uso di un vaccino rispetto alle terapie attuali?
I vantaggi sono due. Rispetto ai farmaci che hanno una loro emivita e quindi dopo un po’ di tempo cessano di esistere, le cellule del sistema immunitario istruite a combattere i tumori possono restare nel nostro organismo per molti anni. Il secondo vantaggio è che, attraverso la medicina di precisione, si possono cercare le mutazioni di ogni singolo paziente, perché ogni individuo ha un tumore diverso dall’altro, e, una volta identificate, associarle ai vaccini; e così ogni paziente disporrà di un vaccino personalizzato. Questa azione è resa più agevole perché unita a farmaci che bloccano la proteina “Pd1” che frena il sistema immunitario. Insomma, stiamo approntando un’arma letale che cerca le mutazioni del tumore e potenzia di gran misura la risposta immunitaria.

È grazie a questi “freni” che fino ad oggi i tumori hanno potuto sopraffarci?
I tumori utilizzano “molecole inibitorie” che spengono proprio i linfociti. Noi stiamo analizzando una particolare popolazione di linfociti, “Cd8 staminali”, con caratteristiche simili alle cellule staminali, che riescono a sfuggire ai meccanismi di esaurimento a cui di solito vanno incontro le cellule immunitarie anti-cancro. Insomma, è come avere una riserva di difese che si attiva, anche a distanza di anni, per impedire la formazione di metastasi.

Quanto siamo vicini ad eliminare definitivamente gli ostacoli che il tumore crea tra i farmaci e la malattia?
Ci stiamo lavorando. Quel che è certo è che l’immunoterapia moderna per il momento è arrivata a identificare questi ostacoli, questi freni. È una scoperta premiata, nel 2018, con il Nobel della medicina conferito agli scienziati James Allison e Tasuku Honjo. Adesso cerchiamo di fare un passo avanti.

Il vostro vaccino può essere utilizzato contro altre forme di cancro?
Sì. A patto che si identifichino le mutazioni e le risposte nei diversi soggetti, perché non tutte sono uguali, ecco perché bisogna lavorare sui modelli predittivi. È un’attività già in corso con Nouscom. Altre aziende biotech stanno facendo altrettanto. Gli obiettivi più studiati sono il tumore del polmone e il melanoma.

Perché negli Usa si è già alla fine della Fase 1 e in Italia non avete ancora potuto iniziare? Non è paradossale che scienziati italiani debbano fare sperimentazioni utilizzando biotech svizzere e appoggiandosi su ospedali americani?
Siamo in attesa dell’autorizzazione Aifa che spero arrivi il più presto possibile. In diversi centri, come a Candiolo, siamo pronti per trattare i primi pazienti. Più in generale in Italia non c’è questa grande attenzione nel favorire la creazione di giovani biotech. Per tornare al discorso sugli Usa, ad Harvard per esempio, tutte le buone idee passano attraverso le biotech e poi diventano veri e propri progetti industriali. Che arricchiscono l’intero Paese.

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