martedì 19 marzo 2019
Si oppose alle pressioni dei clan, senza paura, armato solo del Vangelo. Dal suo esempio in Campania è sbocciata la primavera del riscatto
Don Diana, il prete con l'odore delle pecore che ci insegna a essere uomini
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«I veri galantuomini sono quelli che non fanno professione né di eroi né di vigliacchi, sono quelli che ieri non gridavano "Viva la Germania" e oggi non gridano né "Viva l’America" né "Viva la Russia"». Non so per quali misteriosi ingranaggi di pensieri mi ritornano in mente queste parole di Curzio Malaparte mentre ci prepariamo a celebrare il venticinquesimo anniversario dell’orribile omicidio di don Peppino Diana. Aveva 36 anni appena questo prete aversano quando fu trucidato dalla camorra mentre si accingeva a celebrare la messa. Era la festa di san Giuseppe. La camorra, la mafia, la ’ndrangheta scelgono con cura la data in cui colpire. Non deve essere un giorno qualsiasi: don Pino Puglisi venne ucciso nel giorno del suo compleanno, don Peppino Diana in quello del suo onomastico. Mai avrebbero pensato di diventare eroi o santi questi due preti meridionali che nemmeno si conoscevano. Credo che ne avrebbero riso al solo pensiero. Una risata calda, aperta, schietta. Una fragorosa e ricca risata meridionale.

Eroe? E che vuol dire? Può accadere, certo. E tante volte accade. T’incammini, procedi, ci credi, fai sul serio. E a qualcuno tutto questo dà fastidio. Uno dei clan più sanguinari e insidiosi che la storia delle mafie ricordi è proprio quello nato e sviluppatosi nel paese di don Peppinio, Casal di Principe. Il cosiddetto "clan dei Casalesi". Tanti di quegli ignobili e tristi figuri erano suoi vicini di casa, vecchi amici di scuola, compagni di giochi adolescenziali. Poi le strade si divisero. Mistero della vita. Nati nello stesso paese, battezzati nella stessa chiesa, zapparono le stesse terre, studiarono nella stessa scuola, si espressero nello stesso, gustosissimo dialetto partenopeo con quel particolare accento che sa d’inglese. Eppure, uno consumerà la sua vita per riscattare il popolo che ama dalle grinfie degli altri che quel popolo odiano, maltrattano, umiliano fino ad affossarlo. Il prete don Giuseppe Diana e i camorristi di Casal di Principe. Un braccio di ferro. Strade parallele. Lotta tra bene e male. Eppure, strano a dirsi, non era don Peppino a temer di loro, ma loro a tremar di lui. Loro, armati di pistole e mitragliette, con macchine di lusso e conti in banca; loro che vantavano agganci con la politica e la mafia siciliana. Questi “duri” tanto fragili e spavaldi, spiavano il piccolo prete armato di Vangelo. Golia e Davide.

Loro vorrebbero offrire alla sua parrocchia, banchi e suppellettili, calici d’argento e pissidi d’oro. Sculture di santi e madonnine in legno pregiato, in memoria di parenti e amici uccisi. Perché l’amico d’infanzia li tiene a distanza? Perché non accetta le loro offerte? Perché ostenta di non temerli? Perché non chiede? Perché continua a predicare e scrivere contro di loro? Perché non fa l’elogio funebre ai funerali dei loro cari? Perché mette a dura prova la loro pazienza? Don Peppino è un uomo, un galantuomo, non è un vigliacco. Non si è mai schierato dalla parte del più forte, non ha mai parteggiato per il potente di turno, chiunque esso sia. Don Peppino è un prete. Un semplice prete. Un vero prete. Don Peppino è un vero "Casalese". Tra le tante cose che i camorristi devono immediatamente restituire alla società civile c’è anche il nome del paese in cui don Peppino e migliaia di persone perbene sono nati e che loro hanno usurpato. Loro non sono i "Casalesi", ma quelli che hanno insozzato, calpestato, insanguinato le strade, le case, la vita di Casale. Don Peppino è il vero Casalese. E lo uccisero. A tradimento lo uccisero.

Sono passati 25 anni da quel tragico e dolorosissimo 19 marzo 1994. Sembra ieri, sembra un secolo, un’eternità. Mi telefonarono. Corsi. Peppino stava riverso in una pozza di sangue in chiesa. Una pugnalata al cuore. Credetti di svenire. Sul presbiterio, impietrito, in silenzio, angosciato, addolorato, il volto bianco come la tovaglia dell’altare, stava l’allora vescovo di Aversa, Lorenzo Charinelli e qualche confratello. Li raggiunsi. Ci abbracciammo. Nessuno osava parlare. Un nodo ci serrava la gola. Il vescovo sussurrò: " Preghiamo… preghiamo". Peppino era morto. Possibile? La camorra aveva dunque vinto? Il male aveva prevalso? Invece. L’uccisione di Peppino segnò la condanna a morte del "clan dei Casalesi". Lentamente, ma inesorabilmente, da quel giorno iniziò il declino di quei ceffi che avevano terrorizzato il nostro territorio. Sbocciava la primavera del riscatto. I campi si ricoprivano dei fiori della dignità ritrovata. Nei cuori la speranza iniziò a galoppare. Sono stati anni incredibili. Impegno. Coraggio. Arresti. Pentimenti. Carcere duro. Confische. Comitati. Cortei. Cultura. Preghiera. Scuola. Sono passati venticinque anni e non c’è stato un giorno in cui non ci siamo confrontati con don Peppino Diana. Che non gli abbiamo chiesto consiglio, forza, aiuto. Che non abbiamo pregato per lui e pregato lui di pregare per noi. Don Peppino Diana, un prete che ci ha insegnato cosa vuol dire essere preti: peccatori e limitati ma innamorati di Gesù, e impregnati dell’odore delle pecore. Preti che per strappare le pecore ai lupi sono disposti a tutto, anche a dare la vita. Un prete, don Peppino, che ci ha insegnato cosa vuol dire essere uomini.

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