domenica 28 febbraio 2010
Nel 2009 si sono verificate oltre 600 aggressioni agli uomini di polizia penitenziaria, quasi sempre azioni studiate. All’origine del malessere c’è il cronico sovraffollamento degli istituti di pena, cui si accompagna la scarsità degli agenti di custodia E la penuria di risorse priva le strutture degli specialisti necessari. VAI AL DOSSIER
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Prima una raffica di suppellettili, poi il lancio di olio bollente ed escrementi, mentre altri incendiano i materassi e si barricano davanti alle celle. «Quando accade, riprendere in mano la situazione è sempre difficile». Di questo passo nel giro di poche settimane «rischiamo di perdere il controllo di qualche carcere». Donato Capece, segretario del sindacato degli agenti penitenziari Sappe, quasi non ne può più di commentare quelle che nel linguaggio dell’ufficialità vengono archiviate come «tensioni», «proteste» o «agitazioni» dei detenuti. In atto ci sono rivolte vere «e il rischio che questi episodi si moltiplichino – confermano anche i dirigenti penitenziari del Sidipe, riuniti a Trieste per il loro congresso – è alto ogni giorno». Nel 2009 si sono verificate «oltre 600 aggressioni agli uomini della Polizia penitenziaria – ricorda Capece – e quest’anno non andrà meglio». Gli attacchi quasi mai avvengono d’impeto: «L’utilizzo di “armi” adoperando ciò che i detenuti possono tenere in cella non è mai occasionale». Azioni premeditate, studiate, messe a segno al solo scopo di rendere insicure le prigioni. «Quando in una struttura per 200 persone se ne trovano ogni giorno quasi 600 – osserva Rosario Tortorella, direttore della casa circondariale di Piazza Lanza a Catania – è facile immaginare quali siano le condizioni di vita dei reclusi e di chi come noi dovrebbe gestire l’istituto». Tortorella è anche segretario nazionale vicario del Sidipe, e in questa veste invita a una riflessione: «Se si pensa di usare il carcere per ogni genere di reato, allora non c’è speranza di avere condizioni di vivibilità funzionali alla sicurezza e alla riabilitazione». Nelle settimane scorse sia a Firenze che a Perugia, sono finiti in ospedale cinque agenti penitenziari che avevano fronteggiato una rivolta di extracomunitari partita incendiando il materasso di uno spacciatore immigrato. Proteste si ripetono anche a Biella, Arezzo e Como. A Taranto un agente è stato aggredito e ferito: due settimane su un letto d’ospedale. Alla fine dell’anno scorso nella struttura pugliese c’erano 518 reclusi (a fronte dei 315 posti letto regolamentari) e un vuoto in organico di 50 poliziotti penitenziari. Stesso allarme alle Sughere, lo storico istituto di Livorno, dove i sindacati parlano di «situazione al limite della gestibilità». Sezioni costruite per ospitare 25 detenuti sono state trasformate in scatole di sardine per 75 esseri umani. Lavoro triplicato e agenti esausti. Qualche giorno fa anche una parte degli arrestati per l’inchiesta sul maxi riciclaggio che ha coinvolto Fastweb ha dovuto fare i conti con i problemi del sovraffollamento: per cinque delle 14 persone portate a Rebibbia non c’erano le brande su cui passare la notte. Intanto le risorse continuano a calare. Da 15 anni non viene indetto un concorso per la posizione di direttore di istituto di pena, con il risultato che in Sardegna ci sono 11 case di detenzione e solo quattro dirigenti. Non bastano poi gli educatori, i medici e gli psicologi. «Una recente circolare ministeriale – rivela Tortorella –, chiede alla polizia penitenziaria di svolgere anche un ruolo di “ascolto” dei detenuti quando manca lo psicologo». Quelli che una volta erano evocati come «secondini», oggi dovrebbero fare anche gli psichiatri. Non farebbe ridere neanche se fosse uno scherzo. Tutto questo mentre milioni di euro vengono buttati per niente. «Ma vi pare normale – s’arrabbia Capece – che dobbiamo versare ogni anno 11milioni di euro alla Telecom per i braccialetti elettronici che non vengono utilizzati?». Avrebbero potuto essere un’alternativa nei casi di reati meno gravi e per i condannati socialmente non  pericolosi. Ma è come se il sistema detentivo fosse esso stesso prigioniero di un moto primitivo. La concezione ottocentesca rivive non solo nella ruggine di certi penitenziari, ma soprattutto nelle norme. Come quella che concede al recluso di usare solo lo sgabello e non la sedia, ancora considerata una comodità di troppo. Francesco Dellaira la sua competenza di laureato in Economia e commercio da 13 anni la mette a disposizione dei ristretti a Terni: 300 persone su 150 posti. Dietro le sbarre c’è un rinomato panificio con pasticceria, un laboratorio artistico che sta contribuendo alla riqualificazione urbanistica della Terni post-siderurgica, e perfino un centro per le energie pulite. I detenuti si sono specializzati nel montaggio dei pannelli solari e fotovoltaici e grazie a questo l’acqua calda del carcere è prodotta risparmiando un sacco di soldi sulle bollette. Che l’indulto non avrebbe portato buone notizie lo avevano intuito presto. «Così ci siamo preparati a quello che già immaginavamo – illustra Dellaira, anch’egli del direttivo Sidipe –. I detenuti rimasti nella struttura hanno lavorato per riorganizzazione gli spazi». Bisognava fare in fretta, e avevano ragione. Qualche mese dopo non ci sarebbe stato posto per tutti.
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