mercoledì 7 marzo 2018
Il medico di Casale Monferrato ha accolto e curato oltre mille pazienti dal 1978 a oggi. Un dono per la città il suo hospice e la collina delle donne al Parco Eternot
Daniela Degiovanni

Daniela Degiovanni

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Fuori da Casale la gente non lo sa, cosa vuol dire. Vivere con la paura – costante, quotidiana – del tumore. Tutti, nessuno escluso. I bambini, i ragazzi, i medici, gli impiegati di banca, le parrucchiere. Mille volte, negli ultimi 40 anni, la paura ha bussato alla porta dello studio di Daniela Degiovanni: «Dottoressa, sento dolore alla schiena quando respiro». Mesotelioma, la diagnosi. Data oltre mille volte, per oltre mille morti. I primi tempi l’oncologa di Casale Monferrato teneva le loro fotografie appese nello studio. «Poi mi sono accorta che quei volti gettavano ancor più nello sconforto i nuovi pazienti che arrivavano». Così Daniela ha cominciato a tenere la sua Spoon River nei cassetti di casa. Un oceano di sofferenza disumana.

«A inizio ’78 ero una ragazza appena uscita dall’università – racconta –. Anni di studio sui libri, di teorie. Incontrai per caso un delegato sindacale, che mi convinse a fare una breve esperienza come medico del lavoro al patronato Inca Cgil». Daniela dice di sì e la porta della sua vita si spalanca sull’Eternit e sull’amianto. «Ricordo ancora gli operai in fila, fuori dallo sgabuzzino in cui li visitavo».

Arrivano sporchi di polvere, da Daniela. Le raccontano che la polvere è il loro calvario: la respirano, la mangiano nei panini portati da casa, a casa la riportano coi vestiti, intrisi e imbiancati. Polvere, polvere. «Nessuno di noi, allora, poteva immaginare che cosa significasse». Gli operai, però, cominciano ad ammalarsi e a morire. Sempre più spesso. Anche le mogli, le sorelle, i figli si ammalano. Anche chi non lavora alla fabbrica. «Capii subito che la medicina è carne e ossa. Capii che che non bastava la visita, l’impegnativa. Serviva aprire il cuore, conoscerli uno a uno».

Daniela inizia la specialità in oncologia. Il lavoro a stretto contatto col sindacato e con gli operai ammalati intanto continua, mentre Casale prende piano piano coscienza della strage in atto. «Servì una ricerca dell’Università di Torino per sancire quello che stava accadendo davvero: i dati dissero che in città era in corso una vera e proprio “epidemia di tumori”. Non di morbillo, o di influenza. Di tumore». La dottoressa nei primi anni Ottanta viene assunta in ospedale, dove insieme a due colleghi crea il reparto – prima inesistente – di oncologia. E mentre fuori, in città, comincia la rivolta contro la Eternit e alla fine, nel 1986, lo stabilimento chiude, da quel reparto finiscono col passare tutti: «Vicini di casa, amici, persino i miei colleghi medici e infermieri. L’epidemia continuava, e con l’epidemia cresceva la rabbia, che a Casale ha fatto anche più male del mesotelioma». Perché non si accetta, di morire lentamente, per la polvere. Perché la polvere, a Casale, fa morire anche oggi che l’Eternit è chiusa da oltre trent’anni (il picco di mortalità è previsto per il 2020).

Daniela capisce anche che l’ospedale non basta più. Bisogna andar fuori, nelle case della sua città, per stare vicino alle famiglie che affrontano la “bestia”. Quando finisce il turno allora si mette in macchina, comincia ad andare da un paziente, poi da un altro. Nel 1995 nasce – pioniere in Italia – il Servizio di cure palliative domiciliari di Casale, nel 1996 l’associazione Volontari italiani per l’assistenza ai sofferenti (Vitas). Daniela è il cuore delle attività e l’esempio per decine di professionisti: la sua macchina del bene ogni anno segue 450 pazienti nelle loro case con 2 psicologi, 2 fisioterapisti, 4 dottoresse, 6 infermieri e una quarantina di volontari.

E ancora non basta: nel 2009 nasce anche l’Hospice di Casale, oltre 250 le famiglie accolte ogni anno. Daniela, che è andata ufficialmente in pensione nel 2016, non s’è ancora fermata: oggi coordina l'associazione, forma medici e infermieri, va nelle scuole di Casale a raccontare ai giovani che cos’è il male che porta via i loro genitori, senza tregua. «Non ho fatto tempo a farmi una famiglia. Non ce n’era. E non ho rimpianti, forse quello di non aver fatto di più di così, per aiutare la mia gente».

Qualche sera, finiti gli appuntamenti, se ne va a camminare nel Parco Eternot, che è sorto sopra la fabbrica: «Ricordo ancora quando in un consiglio comunale fiume ci toccò decidere cosa fare di quel che restava della fabbrica. Io mi misi a scrivere una poesia, mi piace farlo. La intitolai “La collina delle donne” sognando un posto tranquillo, con l’erba soffice e i fiori, dedicato alle donne della mia terra. A cui l’amianto ha portato via gli uomini, i figli, spesso la vita». Quella collina c’è davvero, nel parco. Oggi ci corrono i bimbi.

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