
Emanuele Fiore
«Quando uno si trova con le spalle al muro, la forza la trova». Sono vuote di retorica e pesanti di consapevolezza le parole che Emanuele Fiore, ventisei anni, pronuncia con serenità dalla sua casa di Torino, dove è rientrato da poche ore dopo un intervento chirurgico per una delle due patologie autoimmuni che gli fanno compagnia da tutta la vita. L’altra – due anni fa – lo ha costretto a sottoporsi a un trapianto di fegato da cui, dice lui, è uscito con una nuova vita.
La storia di questo ragazzo inizia e si svolge a Torino, dove Emanuele è nato e cresciuto. A sette anni, dopo un episodio acuto, gli vengono diagnosticate una colangite sclerosante al fegato e una rettolite ulcerosa all’intestino, due malattie che spesso vanno in coppia: la prima colpisce i dotti biliari rendendo difficoltosa la fuoriuscita della bile dal fegato e indurendo progressivamente l’organo; la seconda infiamma le pareti dell’intestino e può formare ulcere che creano problemi di digestione. «Comunque – minimizza il protagonista – ho vissuto un’infanzia e un’adolescenza normali, a parte la terapia farmacologica e i controlli periodici cui mi sono sempre sottoposto, prima all’Ospedale Regina Margherita e poi alle Molinette». Un ragazzo comune a cui, proprio in quegli anni, viene anche la febbre dello sport e, in particolare, del basket che ancora oggi pratica da playmaker della squadra Tam Tam Torino e che resta una delle sue più grandi passioni, condivisa con il papà. «Anche lui era un perfetto sportivo – ricorda Emanuele – e seguiva uno stile di vita iper salutare: purtroppo, quando avevo dieci anni, è stato colpito da un aneurisma cerebrale ed è mancato dalla sera alla mattina. Mia madre ha deciso di donare i suoi organi: all’epoca non capivo il valore di quel gesto ma la vita, più tardi, me ne ha fatto comprendere la portata».
Già, perché facendo i conti con il lutto affianco alla mamma e alla sorella, Emanuele a poco a poco ha ripreso la normalità, frequentato il liceo scientifico e l’università dove si è iscritto a Economia, prendendo la laurea triennale nel 2021. «Che anno, quello: ho vinto il mio primo campionato di basket in serie D ma ho anche iniziato a stare male dal punto di vista del fegato: stava iniziando a cedere». Nel giro di qualche mese, l’équipe delle Molinette guidata dal professore Renato Romagnoli capisce che la colangite stava presentando il conto e decide di inserire il ragazzo nella lista per il trapianto. «Ho aspettato quattro mesi che arrivasse l’organo per me. Per prepararmi al meglio al trapianto e aumentare le probabilità di una ripresa rapida i medici mi hanno consigliato di mantenermi in forma e così ho fatto, correndo e facendo palestra. Finalmente, l’11 maggio 2023 a mezzanotte mi è arrivata una chiamata da un numero sconosciuto: era il momento. Il tempo di prepararmi, fare un giro di telefonate e sono andato in ospedale. Ho ripensato a mio papà ed è stato proprio un cerchio che si è chiuso».
A Emanuele lo sport è stato – ancora una volta – utilissimo perché grazie all’allenamento preliminare, dopo sette ore di operazione, sei giorni di degenza e quattro mesi di riposo, era di nuovo sul campo da gioco, accolto da tutti i compagni di squadra e da duecento persone del quartiere Mirafiori accorse apposta per lui. «La mia vita è cambiata il giorno del trapianto – ammette Emanuele –. Rispetto a prima è una pacchia. Certo, bisogna fare attenzione a certi cibi, ricordarsi le pastiglie antirigetto, evitare certe situazioni ma niente di più di quello che ho sempre dovuto fare. Con la differenza che per la prima volta ho capito davvero cosa vuol dire stare bene».
La sua esperienza di trapiantato Emanuele – che un mese fa ha preso la laurea magistrale in economia e cominciato a lavorare in un grande gruppo nel settore dell’abbigliamento – la condivide con altre persone attraverso le associazioni Aido, Aits (Associazione italiana trapiantati di fegato) e Aned (Associazione Nazionale Emodializzati Dialisi e trapianto) che organizza i mondiali di calcio e basket tra squadre di atleti trapiantati. «Purtroppo quest’anno dovrò rinunciare per via di questo nuovo intervento all’intestino a cui mi sono dovuto sottoporre per la mia seconda patologia, ma ci sarò alla prossima edizione». Nel frattempo, Emanuele racconta nelle scuole e su Instagram l’importanza della donazione, a cui purtroppo si oppongono ancora troppo persone: da gennaio lo ha fatto ben il 40% di chi ha rinnovato la carta d’identità elettronica. Una missione condivisa con la Fondazione DOT – Donazione Organi e Trapianti, un gruppo di cinque istituzioni ed enti che promuove la ricerca scientifica e la cultura della donazione e del trapianto e con cui collaborano équipe di medici specializzati che hanno operato anche la giovane promessa del basket. «La storia di Emanuele – dichiara Mauro Rinaldi, presidente della Fondazione e direttore del Centro Trapianti di Cuore e Polmone delle Molinette, AOU Città della Salute e della Scienza di Torino – mostra come dopo un trapianto si possa non solo tornare a vivere ma farlo raggiungendo grandi livelli agonistici nello sport. Una rinascita che si deve alla medicina dei trapianti, sempre più sofisticata, e soprattutto ai donatori, senza i quali i trapianti non potrebbero avvenire».
E in effetti la storia di Emanuele è solo una delle tante di rinascita: in Italia – grazie a una rete di 97 centri di trapianto che operano presso 42 ospedali – sono 48mila le persone che oggi vivono grazie a un trapianto e nel 2025 sono già state oltre 450 le persone che hanno donato i propri organi e reso possibili 1.100 interventi. Sull’altro lato della medaglia, però, l’ultimo rapporto del Centro nazionale dei trapianti ha registrato una lista ancora troppo lunga di 8.200 pazienti – persone con storie, passioni e ambizioni – che attendono il loro turno per sostituire un organo danneggiato, nella speranza di riavere una esistenza piena, proprio come successo ad Emanuele.