martedì 24 luglio 2018
La denuncia I numeri dell’Oim mostrano come l’assenza delle Ong non abbia reso più sicuro il Mediterraneo, tutt’altro.
Così in mare torna a crescere il numero dei morti
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I morti, nel Mediterraneo, sono in aumento. I dati diffusi nelle ultime ore dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) smentiscono chi adduce come argomento per la chiusura dei porti, e per la criminalizzazione dei soccorsi in mare, l’equazione “meno sbarchi, meno morti”. Mentre il Papa torna a gran voce a chiedere la fine delle morti e delle tragedie in mare. Nel giugno 2018 i morti sulla tratta centrale del Mediterraneo (cioè quella che ha per destinazione l’Italia e Malta) sono stati 564, contro i 529 dello stesso mese del 2017, e il trend – siamo soltanto al 18 luglio – è in forte aumento: 153 contro 68. Contestualmente, a fronte dei 23.524 arrivi relativi allo stesso periodo dello scorso anno, a giugno sono sbarcati in Italia soltanto 3.371 profughi. Non è difficile capire che in proporzione il mese appena trascorso è stato infinitamente più letale.

Ma anche se non si fosse verificata un’impennata dei decessi, come già anticipato da Avvenire, la probabilità di morte è aumentata anche su base semestrale, perché «quando ci sono questi dati – spiega il portavoce di Oim per il Mediterraneo, Flavio Di Giacomo – non bisogna calcolare soltanto gli arrivi, ma anche le partenze». Nel primo semestre del 2017 i tentativi di oltrepassare il mare sono stati 105.648 (con 95.213 arrivi), contro i 32.431 del medesimo periodo di quest’anno, in cui sono sbarcati in 18.081. La percentuale di morti sui viaggi tentati è salita dal 2,1% al 3,4%. Ciò vuol dire che partire adesso è molto più rischioso. Numeri che fanno il paio con quelli presentati nei giorni scorsi dall’Acnur, secondo cui nel Mediterraneo l’anno scorso moriva 1 persona su 39, quest’anno, a giugno, 1 su 7. Sollevare il dubbio che bloccare l’attività delle Ong abbia contribuito sembra più che legittimo. «Stimiamo che le organizzazioni siano responsabili del 30-35% dei salvataggi – continua Di Giacomo –. Il punto però non è solo il numero delle vite salvate, ma l’area di attività. Le Ong hanno coperto i vuoti lasciati da Mare Nostrum e da Triton». Dopo la fine di Mare Nostrum, nell’ottobre del 2014, non c’erano ancora organizzazioni operanti nella zona. Prima della seconda metà del 2015, nella zona operava solo Moas, attiva dall'agosto del 2014.

«In quell’arco di tempo – argomenta il portavoce Oim – abbiamo notato un aumento delle partenze e un incremento dei naufragi. Tra questi anche la terribile tragedia del 18 aprile in cui persero la vita 850 persone».

Questo perché prima che Triton operasse a pieno regime, a tentare la traversata erano soprattutto mercantili e altre imbarcazioni di fortuna. Circostanza che dovrebbe bastare a respingere l’accusa delle Ong come pull factor, un fattore di attrazione per profughi e scafisti. Anche perché a determinare i flussi sono soprattutto i push factor e cioè le condizioni di vita che spingono i profughi a tentare la “roulette russa” del mare piuttosto che rimanere intrappolati tra conflitti, miserie o campi di detenzione. Nelle acque Sar sotto il controllo di Tripoli il rischio è che adesso regni un vuoto in cui leggi e convenzioni internazionali perdono valore. Il recupero di migranti in quest’area spetterebbe alla Guardia costiera libica, ma i mezzi e le capacità restano limitati.

C’è poi un’altra questione. Tra il numero di persone che provano a partire, gli arrivi e i decessi, manca all'appello un altro dato: quello dei migranti riportati in Libia: «Sono circa 11mila», spiega Di Giacomo ricordando l’appello lanciato a inizio mese dal suo direttore generale, William Lacy Swing, che ha definito una pratica «crudele» quella di costringere in detenzione arbitraria chi tenta il viaggio verso l’Europa. Senza contare che né l’Oim né l’Acnur gestiscono i campi, pur avendovi accesso e potendo provvedere ai primissimi bisogni dei profughi. «La Libia poi non è soltanto un Paese di transito – sottolinea il rappresentante Oim – ma anche di destinazione, e lo è per una buona percentuale di persone giunte lì dall’Egitto, dal Mali o dal Ciad. Poi è chiaro che le condizioni cambiano e molti preferiscono imbarcarsi. Ma la narrazione che vede il Paese nordafricano come esclusivo punto di partenza non è corretta».

Da ultimo, e al netto del diritto internazionale, c’è un principio di umanità che da solo dovrebbe convincere a evitare di criminalizzare il salvataggio di vite in mare. A ricordarlo è stato il Santo Padre nell’Angelus di domenica scorsa: «Sono giunte in queste ultime settimane drammatiche notizie di naufragi di barconi carichi di migranti nelle acque del Mediterraneo. Esprimo il mio dolore di fronte a tali tragedie ed assicuro per gli scomparsi e le loro famiglie la mia preghiera. Rivolgo un accorato appello affinché la comunità internazionale agisca con decisione e prontezza, onde evitare che simili tragedie abbiano a ripetersi».

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