sabato 24 settembre 2022
Nel 2016 l’incidente in motorino, poi anni nei reparti dei «senza speranza». Solo la madre Viviana captava minimi segnali, contro ogni evidenza scientifica. «Fino a quando sparirono le caramelle...»
Christian assieme alla sua mamma, Viviana

Christian assieme alla sua mamma, Viviana

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Le sirene facevano pensare che qualcosa di grosso fosse successo. E suo figlio era in giro in motorino. «Se continui a non rispondere mi incavolo!», gli aveva scritto sul cellulare, ma Christian, 21 anni, restava in silenzio, «le sirene erano per lui…». In quel momento giaceva sull’asfalto e i medici cercavano di rianimarlo. All’amico che viaggiava dietro sullo stesso motorino neanche un graffio, invece la testa di Christian aveva avuto un doppio contraccolpo, prima in avanti contro l’auto che improvvisamente aveva fatto inversione, poi indietro contro il casco del compagno. Era la notte del 3 luglio 2016, iniziava in quel momento il viaggio di Christian Scaiola nel mondo spaventoso e sconosciuto dell’"incoscienza", quel limbo indistintamente chiamato "stato vegetativo" che spesso, però, dentro a un corpo inerte continua a nascondere una coscienza, a volte minima, altre volte latente, nel migliore dei casi capace di riemergere (se non viene dimenticata in un angolo senza stimoli né attese…).

Oggi Christian di anni ne ha 27 e ci sorride dalla sedia a rotelle che guida per casa con un joystick manovrato dalla mano sinistra, l’unica che muove. A rievocare i fatti è sua mamma Viviana, 56 anni, ma il protagonista è lui e ogni volta che vuole dire la sua alza l’indice per ottenere il silenzio. «La prima parola che ho detto quando mi sono svegliato è stata mamma», dichiara. Proprio come 26 anni fa.

E d’altra parte di una nuova nascita si è trattato, quando Christian, dopo anni di ospedali, reparti per i “senza speranza” e minimi segnali di vita captati solo dalla mamma, è tornato davvero. Nessuno ci avrebbe scommesso: non i medici che al San Gerardo di Monza la notte dell’incidente gli scoperchiarono metà testa per decomprimere il cranio, non gli specialisti di Garbagnate dove in seguito fu riabilitato tra i sub-acuti, sempre attaccato all’ossigeno e con la tracheotomia tenuta aperta per aspirare le secrezioni. I neurologi non credevano alle sensazioni di quella madre ostinata nel sostenere che il suo ragazzo muoveva un dito se lei gli stringeva la mano, in un dialogo muto noto solo a loro due. «A Garbagnate c’erano medici e fisiatri d’eccellenza, persone meravigliose – precisa lei – ma dopo sei mesi ci dissero che non c’era più nulla da fare e mio figlio fu trasferito al Palazzolo Don Gnocchi, nel nucleo per gli stati vegetativi. Era la rinuncia a qualsiasi miglioramento».

Christian usciva così definitivamente dal circuito ospedaliero per entrare in quello socio-sanitario, dove per i pazienti non c’è più nulla da tentare e vengono custoditi, con ogni attenzione ma senza un percorso mirato al recupero. «In pratica a quel livello l’iter riabilitativo si ritiene esaurito… ma chi l’ha detto? Lì è rimasto venti mesi», continua Viviana, che fin dall’inizio aveva un obiettivo, assurdo, incredibile: portarselo via. «Solo che la casa popolare in cui vivevamo era senza ascensore, inoltre i medici mi davano della pazza, Christian era ancora scalottato, come dicono loro, metà testa era molle, e si nutriva con la Peg, direttamente col sondino nello stomaco. Io però non avevo mai smesso di sperare, anche perché quando gli avevano tolto il respiratore lui semplicemente aveva continuato a respirare da solo, per me era un buon segno». Poi era avvenuto un fatto straordinario, «mi sono accorta che si era mangiato le caramelle di gelatina alla frutta che tenevo sul tavolino al Palazzolo! Nessuno mi credeva, così di nascosto iniziai a dargli da mangiare qualcosa per bocca».

Quando al San Gerardo di Monza Christian ha riavuto la sua calotta cranica e il Comune di Rho gli ha attribuito la piccola casa con ascensore in cui vivono adesso, lei se l’è portato via davvero: era il 18 dicembre del 2018, due anni e mezzo dopo l’incidente. «Non era come lo vede oggi – sottolinea la madre –, era assente, non parlava da anni, faceva solo versi e movimenti inconsulti, pesava 45 chili. Ma invece di nutrirlo con la Peg gli frullavo il cibo e dopo qualche tempo non l’ho più nemmeno frullato, ormai mangiava di tutto... oggi pesa 80 chili e solo con i liquidi fatica ancora a deglutire, così beve con la cannuccia». Christian alza l’indice e parla, lentamente (ogni parola richiede impegno): «I miei piatti preferiti sono la pizza e i gamberoni alla piastra, poi le cotolette e la pasta al forno».

Tutti traguardi sudati uno per uno da mamma Viviana, che ha anche lasciato il lavoro per dedicarsi solo a far ri-nascere quel figlio (un travaglio ben più duro di quando lo mise al mondo). La Regione le passa il fisioterapista e lo psicologo, il logopedista e il neuropsicomotricista, ma lei fa i salti mortali per pagare privatamente l’osteopata: «Ne è valsa la pena – assicura –, è riuscito a sbloccargli le corde vocali e la masticazione, grazie a lui Christian ha ripreso a parlare e a mangiare. Chissà quanti ragazzi come mio figlio vengono definiti "non responsivi" ma in realtà sono semplicemente bloccati? Se non hanno la parola e sono immobilizzati, come possono far capire che ci sono?». Suo figlio è la prova vivente che investire nella sanità di pazienti gravissimi come lui ha un senso e i risultati possono essere sorprendenti. «Saranno anche casi rarissimi, in quel reparto solo in due sono riemersi», ammette, «ma come si fa a non tentare? Mio figlio aveva solo 21 anni, può un ragazzo vivere tutta la sua vita in un reparto per stati vegetativi? Soltanto portandolo a casa potevo provare ad aiutarlo».

Lo sa bene anche la moderna neuroscienza, che sulla base di numerosi casi parla di “effetto famiglia”, quell’insieme di stimoli che qualche volta – se l’ambiente è quello giusto – ottengono il “risveglio”. Non esistono regole, ogni paziente reagisce in modi diversi, anche dopo anni. Come spiega il dottor Massimo Croci, pneumologo e anestesista da 30 anni impegnato accanto ai disabili gravissimi, «“svegliare” significa prima di tutto ristabilire una qualche forma di comunicazione con la persona. Poi aiutarla a ritrovare, per quanto possibile, una nuova consapevolezza di sé, ma ciò sarà tanto più facile quanto meno la persona riceverà stimoli "ostili" dall’ambiente in cui vive». Insomma, «se per esempio un paziente viene tolto dal nucleo "stati vegetativi" per essere riportato a casa dove i genitori litigano in continuazione addossandosi reciprocamente la colpa di ciò che è successo, forse ha più probabilità di svegliarsi restando nella Rsa. La mamma di Christian è un esempio lampante, lei ha dato il massimo».

La scelta però è eroica e la battaglia non termina con il “risveglio”, quando semmai per non perdere i progressi la riabilitazione si fa più serrata e costosa… Basta entrare nelle case dei risvegliati per vedere sempre le stesse cose: muri abbattuti per far spazio a sollevatori, letti speciali, attrezzi per la riabilitazione. E genitori che, lasciato il lavoro, si arrabattano tra burocrazia impossibile e spese esorbitanti. «Ma con il risarcimento dell’assicurazione forse avremo una casa nostra e più spaziosa in cui Christian potrà muoversi bene», mormora Viviana, la madre, l’amica, la presenza costante, in pratica il suo respiro e nutrimento.

Gli amici di una volta sono un po’ spariti, nelle prime settimane di ospedale in tanti venivano a trovarlo, poi la vita disperde e il tempo separa. Christian però alza l’indice, «la mamma c’è sempre stata». La guarda con la sua espressione di eterno bambino, sul viso uno stupore costante, rimasto forse impresso dal 3 luglio del 2016, da quel folle volo fatto in motorino andando al bar. «Non ricordo niente dell’incidente», scuote la testa, la sua memoria è labile, vive solo l’istante ed il presente, ma quando gli chiediamo se è contento anche così sorride e alza il pollice.

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