domenica 14 agosto 2022
Dietro le sbarre continuano a crescere i suicidi, che sono arrivati a quota 51. Il Coordinamento delle associazioni che operano al Due Palazzi di Padova rilancia l’appello dei cappellani
 Il grido si moltiplica. «Subito le telefonate libere»
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Altri suicidi, in carcere. Ed ora sono 51. Cinquantuno le persone che si sono tolte la vita in cella da inizio anno a venerdì, quando il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha aggiornato i suoi dati. In tutto il 2021 erano stati stati 57. L’ultimo a farla finita, a Monza, è stato il 24enne Mohamed Siliman: sarebbe uscito il prossimo aprile ed era sottoposto ad una misura di “grande sorveglianza” per problemi di autolesionismo.

Qualche ora prima un altro detenuto si è tolto la vita a Rimini. Una escalation che sembra inarrestabile. Di fronte all’emergenza – un suicidio si è verificato anche nella casa di reclusione di Padova pochi giorni fa – il Coordinamento del carcere, il Due Palazzi, ha deciso di riprendere e rilanciare l’appello promosso dall’ispettore generale dei cappellani, don Raffaele Grimaldi, sulle pagine di Avvenire: «Una telefonata può salvare la vita di un detenuto, per questo chiediamo la liberalizzazione delle telefonate in cella, come possibilità di trovare nei legami familiari e affettivi la forza di andare avanti anche nei momenti di disperazione» spiega Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto, da anni impegnata nel reinserimento lavorativo dei detenuti, e sottoscritto anche da Ristretti Orizzonti – nata nel penitenziario padovano –, così come da Telefono Azzurro, Antigone Padova, Teatro Carcere per un totale di ben 18 realtà del Terzo settore.

«In questi anni di pandemia i detenuti hanno potuto chiamare e nella maggior parte dei casi anche videochiamare casa – aggiunge Boscoletto –. Hanno rivisto i genitori, i figli e gli amici. Con il virus che oggi non è più pericoloso per chi sta in carcere grazie al vaccino, telefoni e smartphone stanno sparendo, si sta tornando ai precedenti 10 minuti di telefonata alla settimana». Ma la tecnologia non mette a rischio la sicurezza di chi sta fuori? «Semmai permette un maggior controllo di quello che viene detto, sia durante la chiamata, che a posteriori ricontrollando tutto.

La scelta di non mettere i telefoni in cella è incomprensibile, anche perché alla maggior parte dei detenuti non vengono controllate le lettere scritte in carcere, quindi perché non dovrebbero telefonare?» La ricetta che arriva da Padova è semplice: a queste persone va data fiducia. «Il carcere non può essere un orfanotrofio per adulti. Se la fiducia viene tradita, si valuta come procedere, se ridurla o revocarla. Ad oggi in carcere le persone imparano a diventare detenuti, non a tornare cittadini. Viene insegnato loro come diventare invisibili – chiosa Boscoletto –, a fronte di 18mila detenuti che avrebbero bisogno d’essere trasferiti in centri di recupero per tossicodipendenti o in centri psichiatrici».

E invece sono chiusi in celle sovraffollate. Mentre il Capo del Dap, Carlo Renoldi, a Ferragosto visiterà la Casa circondariale femminile di Rebibbia a Roma – invitando i suoi rappresentati territoriali a fare lo stesso – dal penitenziario di Padova, dove pure le attività e i progetti portati avanti coi detenuti sono strutturati da tempo (è il caso della rinomata pasticceria nata e cresciuta nell’istituto), il Coordinamento registra come «il carcere che abbiamo oggi ha fallito, è diventato una discarica indifferenziata in cui meno del 30% fa un lavoro vero, professionalizzante, non le pulizie nel penitenziario. Anche per questo la recidiva reale è al 90%: chi esce delinque come e più di prima. Questo è un costo sociale ed economico ». Che, tra processo e carcere, arriva a costare oltre 4 miliardi di euro. E poi c’è il nodo della mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia: «Chiediamo al Dap di tornare a lavorare anche su questo punto».

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