La riforma sanitaria arranca. E tra un anno l'Ue ce ne chiederà conto
Le Case della comunità? «Solo il 2,7% pienamente operative». Gli Ospedali di comunità? «Nessuna regione al 100%». Situazione migliore per Assistenza domiciliare e Centrali territoriali

Tutti gli obiettivi del periodo 2021-2025 della Missione Salute prevista nel Pnrr sono stati raggiunti. Ma solo «a livello formale». Perché, quando manca poco più di un anno alla rendicontazione finale con l’Ue alla quale bisognerà giustificare i fondi ricevuti (Bruxelles ci ha dato 16 miliardi per la sanità), la riforma territoriale e l’attuazione del Fascicolo sanitario elettronico (Fse) procedono molto a rilento e con differenze abissali tra le regioni. Lo rileva la Fondazione Gimbe che registra l’avvenuto rispetto della scadenza nazionale del primo trimestre 2025, l’unica che era in calendario: “Nuovi pazienti che ricevono assistenza domiciliare (terza parte)”, che prevedeva un ulteriore incremento dei pazienti over 65 da trattare in assistenza domiciliare, per raggiungere la soglia della presa in carica del 10% della popolazione in quella fascia di età. Ma solo Molise, Provincia autonoma di Trento, Umbria e Valle D’Aosta garantiscono in tutti i distretti sanitari gli 8 servizi previsti per l’Assistenza domiciliare integrata (Adi): nelle altre regioni ci sono «evidenti carenze sull’assistenza del medico e del pediatra di famiglia, sull’assistenza specialistica, sui servizi socio-assistenziali e sulla fornitura di farmaci e dispositivi».
Per il resto, e cioè nell’assistenza territoriale - Case della comunità (Cdc), Ospedali di comunità (Odc) e Centrali operative territoriali (Cot) -, disegnata dal governo Draghi 3 anni fa per decongestionare ospedali e pronto soccorso e garantire una sanità di prossimità, ce la passiamo male.
In merito alle Cdc, ne erano previste 1.717. Ma per 1.068 (62,2%) le Regioni non hanno dichiarato attivo alcun servizio tra quelli previsti dal Decreto ministeriale del 2022; per 485 strutture (28,2%) è stato annunciato almeno un servizio e solo per 164 (9,6%) tutti i servizi obbligatori risultano operativi. Di queste ultime, tuttavia, soltanto 46 (2,7% del totale) assicurano sia la presenza medica sia quella infermieristica. Solo quattro regioni superano il 50% di Cdc con almeno un servizio dichiarato attivo: Emilia-Romagna (70,6%), Lombardia (66,7%), Veneto (62,6%) e Marche (55,2%). Considerando solo le Cdc con tutti i servizi dichiarati attivi, la media nazionale si attesta al 6,9% per quelle prive di personale medico e infermieristico e al 2,7% per quelle pienamente funzionanti.
Peggiore lo scenario degli Ospedali di comunità: dei 568 previsti, solo 124 hanno un servizio attivo, per un totale di quasi 2.100 posti letto. Per essere pienamente operativi, gli Odc devono garantire presenza medica per almeno 4,5 ore al giorno sei giorni su sette, assistenza infermieristica continuativa (h24 e sette giorni su sette), la figura del case manager (il professionista che coordina i diversi servizi sanitari e sociali occorrenti al malato), posti letto per pazienti con demenza o disturbi comportamentali, e spazi dedicati alla riabilitazione motoria. Nessuna Regione ha attivato tutti i servizi previsto dal Dm 77. Quelle che però hanno avviato più Odc sono Veneto (43), Lombardia (25) ed Emilia-Romagna (21). Altre dieci Regioni hanno almeno un Odc. A fronte di una media nazionale del 22%, fa notare Gimbe, le percentuali regionali variano in modo significativo: il Molise, con soli 2 Odc da realizzare, raggiunge il 100%. All’estremo opposto, otto territori ne sono completamente sprovvisti: Basilicata, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Piemonte, Provincia di Bolzano, Provincia di Trento e Valle d’Aosta.
Il quadro cambia in positivo quando si analizza la situazione delle Cot, strutture essenziali per coordinare la presa in carico dei pazienti e integrare l’assistenza sanitaria e sociosanitaria. «Risultano attivate in tutte le regioni - evidenzia Gimbe -. Al 31 dicembre 2024, su 650 Cot programmate, 642 risultavano pienamente funzionanti, di cui 480 hanno contribuito al raggiungimento del target europeo».

E il Fascicolo sanitario elettronico? Questo strumento, indica la Fondazione Gimbe, rappresenta «il pilastro della trasformazione digitale del Ssn», che ha richiesto un investimento da 1,38 miliardi di euro per creare un ecosistema digitale in grado di garantire accesso, condivisione e interoperabilità dei dati sanitari in tutto il Paese. Ma secondo la Corte dei Conti il cronoprogramma ha già subìto ritardi: la piena interoperabilità nazionale, inizialmente prevista per giugno scorso, è stata posticipata a dicembre 2024, mentre la digitalizzazione nativa dei documenti è attesa per giugno 2025. Al 30 novembre 2024, secondo i dati elaborati dal portale Fascicolo sanitario elettronico, nessuna Regione ha reso disponibili tutte le 16 tipologie di documenti previste. «Senza la piena operatività del Fse e senza il consenso dei cittadini alla consultazione dei documenti - avverte il presidente di Gimbe, Nino Cartabellotta - rischiamo di centrare i target solo sulla carta per incassare i fondi, ma di lasciare la digitalizzazione del Ssn incompiuta, frammentata e inefficace». A proposito di consenso dei cittadini: al 30 novembre 2024 (31 ottobre per le Marche), soltanto il 42% ha espresso il consenso alla consultazione del Fse da parte di medici e operatori del Ssn, con forti disomogeneità regionali: dall’1% in Abruzzo, Calabria, Campania e Molise, all’89% in Emilia-Romagna.
Ora, detto che rispetto alla fotografia scattata cinque o sei mesi fa, è possibile immaginare una situazione in miglioramento su tutto l’arco della riforma territoriale, resta il fatto che «l’avanzamento di Case e Ospedali di comunità procede ancora troppo lentamente e con velocità profondamente diverse tra le Regioni», sottolinea Cartabellotta. Il problema principale, incalza il presidente di Gimbe, «è che, oltre ai ritardi infrastrutturali, il “pieno funzionamento” delle strutture, che è requisito indispensabile per la rendicontazione finale, è pesantemente ostacolato dalla carenza di personale sanitario, in particolare infermieristico, una vera emergenza nazionale». Sulle Case della comunità, poi, «pesa anche l’assenza di un reale coinvolgimento dei medici di famiglia, perno insostituibile dell’assistenza territoriale. È dunque indispensabile accelerare in maniera sinergica su più fronti, per scongiurare rischi concreti. Il primo, da evitare ad ogni costo – conclude Cartabellotta -, è di non raggiungere i target europei e dover restituire il contributo a fondo perduto. Il secondo è di raggiungere il target nazionale, senza però ridurre le diseguaglianze regionali e territoriali, che rischiano anzi di ampliarsi». Il terzo, «il più grave, è “portare i soldi a casa” senza produrre benefici reali per cittadini e pazienti, lasciando in eredità solo scatole vuote e una digitalizzazione incompleta, a fronte di un indebitamento scaricato sulle generazioni future».
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