«Io, rifugiato afghano, dopo 20 anni sono diventato italiano»
di Alidad Shiri
Il giuramento a Merano e l’emozione di sentirsi finalmente come gli altri. A coloro che vivono qui da tempo dico: «Continuate a lottare»

Qualche giorno fa a Merano, in provincia di Bolzano, ho giurato fedeltà alla Repubblica Italiana. Un momento breve ma profondamente simbolico, vissuto nella sala della giunta comunale, davanti alla sindaca, Katharina Zeller. Eppure, per me, quel momento ha segnato una tappa fondamentale di un viaggio lungo vent’anni. Dopo tutto questo tempo trascorso senza interruzioni in Italia, sono finalmente diventato cittadino italiano, non solo nel cuore, ma anche nei documenti. E non riesco ancora a trovare le parole esatte per descrivere la mia gioia, ma provo a farlo qui, raccontando il mio percorso. Sono arrivato in Italia quando avevo 14 anni.
Ero solo, stanco, spaventato, senza conoscere una parola delle due lingue locali, italiano e tedesco. Scappavo dall’Afghanistan, dalla guerra che aveva distrutto la mia famiglia, quando avevo solo nove anni. Con la zia e i suoi famigliari che mi avevano accolto, siamo stati costretti a rifugiarci nel vicino Pakistan. Ma anche lì per me era molto pericoloso vivere a rischio di ritorsioni perché ero figlio di un capo avverso ai fanatici precursori dei talebani. Ho così dovuto intraprendere da solo un lunghissimo e pericolosissimo viaggio attraverso l’Iran, dove mi sono fermato a lavorare di notte come operaio irregolare a soli 12 anni. Spesso dovevo rendermi invisibile per non essere ricacciato indietro. Non avrei mai pensato che un giorno sarei diventato cittadino di un Paese occidentale, tanto meno di laurearmi. Ho capito che non potevo ritornare indietro e neanche rimanere a Teheran, dove non avevo riconosciuto alcun diritto, di studiare, di muovermi liberamente senza paura, di avere documenti e cure mediche. Allora ho deciso di partire, per forza come irregolare, perché ero senza documenti, affidandomi ad un trafficante di esseri umani, con altissimo rischio di morire durante il viaggio.
Dopo sei mesi, spesso senza mangiare e senza bere, affrontando mille difficoltà, l’ultimo tratto l’ho fatto nascosto sotto un tir dalla Grecia all’Alto Adige, sono finalmente arrivato. Non sapevo dove mi trovavo, però capivo che ero al sicuro. Non ero un migrante qualunque: ero un rifugiato politico. Ricordo ancora il mio primo giorno in Italia. Era tutto nuovo: la lingua, il cibo, le persone, le regole. Ma soprattutto, era nuova quella sensazione di sicurezza, di non dover temere ogni giorno per la propria vita. Vivevo in una struttura socio-pedagogica per minori, il Kinderdorf, dove mi sono sentito accolto. Ho imparato l’italiano, ho studiato, trovando tante persone meravigliose a scuola e fuori che mi hanno aiutato. Mi hanno sostenuto particolarmente la professoressa Gina Abbate e il preside Antonio Riccò sia nella scuola che dopo la scuola.
Ho cercato in ogni modo di restituire a questo Paese quello che mi è stato offerto. L’Italia, per me, è stata una madre adottiva: molto severa perché lenta a riconoscerti come figlio, ma capace di accoglierti comunque con dignità. Eppure, nonostante tutto questo, per vent’anni sono rimasto in sospeso in una sorta di limbo. Non ho potuto partecipare attivamente alla vita politica, non ho potuto andare negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e nemmeno in Inghilterra perché con il mio status di rifugiato non ricevevo il visto. Quindi mi sono sentito a volte escluso. Come se fossi dentro una casa, ma sempre sull’uscio, con la porta aperta solo a metà. E la domanda che tornava sempre nella mia mente era: «Quando potrò essere considerato veramente uno di voi?» La risposta è arrivata finalmente qualche giorno fa, quando ho ricevuto il decreto di cittadinanza.
Nella sala della giunta del Comune di Merano ho pronunciato con convinzione le parole: «Giuro di essere fedele alla Repubblica Italiana e di osservarne la Costituzione e le leggi dello Stato». Mentre parlavo, e firmavo sentivo un nodo in gola, le mani un po' mi tremavano. Ho pensato al ragazzino spaventato di 14 anni che ero al mio arrivo nel 2005.
Diventare cittadino italiano, per me, non è solo una conquista burocratica. È un riconoscimento morale. È anche un senso di responsabilità nuova, perché ora sono parte attiva di una comunità, non più un ospite. Penso spesso a chi, come ero io, è ancora in attesa. A chi vive da anni in Italia, lavora, paga le tasse, cresce figli italiani, ma non ha ancora un documento che lo riconosca. A loro dico: non perdete la speranza. Continuate a lottare. Ogni giorno di attesa ha un senso, anche se non sempre si vede subito. Nessuno dovrebbe vivere vent’anni in attesa di sentirsi cittadino. Ho ricevuto un pezzo di carta, sì, ma dentro c'è la storia di una vita intera. E finalmente posso dire, senza esitazioni: sono italiano!
© RIPRODUZIONE RISERVATA





