Gli effetti collaterali della violenza sulle donne: povertà e meno cure

Il 14% delle vittime non riesce ad accedere ai trattamenti sanitari, spesso per motivi economici. I risultati dell'indagine di D.i.Re in collaborazione con Novartis
November 13, 2025
Gli effetti collaterali della violenza sulle donne: povertà e meno cure
«La nostra relazione quotidiana con le donne vittime ci permette di avere un punto di osservazione privilegiato sull’impatto che la violenza ha su di loro, sia a livello psicofisico sia economico. Ora abbiamo anche una ricerca che evidenzia numericamente queste conseguenze», a parlare è Cristina Carelli, presidente di D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza, che oggi a Milano presenta il progetto “La salute è di tutte. Contro la violenza di genere, per il diritto delle donne alla salute”. Realizzato con il supporto di Novartis, il progetto comprende appunto un’indagine su un campione di 207 donne, con un’età dai 35 ai 54 anni, afferenti ai centri antiviolenza della Rete presenti in tutta Italia.
«Sono circa 24mila le donne che si rivolgono ai nostri centri ogni anno. Il campione della ricerca, seppur piccolo, scatta una fotografia che conferma alcune problematiche che conoscevamo già. Per esempio, vediamo come persista una differenza tra i vissuti delle donne al Nord e quelle del Sud, dove si hanno ancor meno diritti e servizi di prossimità», spiega. L’indagine, curata dalla prof.ssa Manuela Stranges dell’Università della Calabria, evidenzia soprattutto che quasi una donna su due si rivolge al medico solo in caso di sintomi e non ha mai preso parte alle iniziative di screening promosse sul territorio, indicando dunque un approccio alla gestione della propria salute più reattivo che preventivo. Non riesce ad accedere alle cure sanitarie di cui ha bisogno il 14% delle intervistate. Se si chiede loro il perché, si capisce che una grande parte incontra barriere all’accesso ai servizi per motivi economici (il 24%), talvolta in combinazione con difficoltà logistiche o familiari e per problemi legati alla situazione di violenza (31%). In particolare, tra le partecipanti all’indagine che hanno una malattia ma non assumono regolarmente i farmaci di cui avrebbero bisogno, la motivazione più frequente (61,5%) è di natura economica: «La perdita dell’indipendenza economica è una conseguenza della violenza. Si impoveriscono perché mettono a disposizione tutte le risorse che hanno, eredità e stipendi personali sono controllati dai compagni, i quali a volte le fanno pure indebitare per sostenere le proprie imprese». Le conseguenze di questa condizione sulla salute psico-fisica sono altrettanto evidenti, a partire da stress cronico, traumi o trascuratezza della cura di sé: quasi una donna su cinque definisce “cattiva” la propria salute psicologica, il 70% ha sperimentato episodi di solitudine nel corso dell’anno e sei su dieci si sono rivolte a un esperto per un supporto psicologico. Carelli sottolinea come si tratti dunque di un problema sistemico e complesso sul quale serve intervenire a più livelli: «Prese dalla cura e i bisogni degli altri, non dedicano mai tempo a sé stesse.
C’è dunque ancora una questione culturale da superare, ma anche di accessibilità, perché se i servizi di prossimità mancano o le attese sono troppo lunghe le donne in un momento di fragilità sono ancora più scoraggiate a curarsi e fare prevenzione. Ma dobbiamo anche fare in modo che le donne possano entrare in un mondo del lavoro che le valorizzi e le paghi il giusto». La presidente ricorda ad esempio alcuni servizi di prossimità che pian piano sono scomparsi anziché essere potenziati – si pensi ai consultori –, ma è anche fiduciosa sul ruolo che adesso possono giocare i centri antiviolenza. «L’indagine ha rilevato anche un aspetto che mi sta particolarmente a cuore. Le donne che accedono ai centri riportano dei miglioramenti significativi nel benessere psico-fisico e iniziano anche a usare un linguaggio che denota un cambiamento positivo, con parole come “rinascita” o “inizio di una nuova vita”» specifica, ricordando che il 75,8% delle intervistate dichiara un miglioramento del proprio benessere mentale dopo l’accesso al centro antiviolenza. Sono dati ed esperienze che suggeriscono una via: «Per garantire il diritto alla salute, dobbiamo mettere sempre più in relazione i centri antiviolenza e il servizio sanitario, rendere questo più sensibile e formato rispetto alle problematiche della violenza, con percorsi specifici». Per esempio, racconta ancora la presidente della Rete, «non abbiamo dei canali privilegiati per fare le visite diagnostiche alle donne che si rivolgono a noi, anche quando abbiamo bisogno di risultati rapidi, sia per la salute di quelle donne che per rassicurarle. Il centro antiviolenza se riesce compensa le mancanze del sistema istituzionale coprendo gli esami urgenti, ma dipende dalle risorse a disposizione. Bisogna insomma sostenere di più i centri e capire che quello sulla prevenzione è un investimento a lungo termine per il bene di tutta la società», conclude Carelli.
Nell’attesa che il sistema si metta in ascolto, intanto, per avvicinare le donne vittime di violenza ai percorsi di prevenzione e presa in carico, il progetto “La salute è di tutte” prevede anche degli appuntamenti nei centri antiviolenza di D.i.Re su tutto il territorio nazionale, con la possibilità per le donne di realizzare visite e colloqui dedicati alla salute senologica e cardiovascolare. «Come azienda che lavora alla frontiera dell’innovazione medico-scientifica, riteniamo importante impegnarci a favorire nuovi modelli di collaborazione a livello sanitario e sociale, per garantire la piena realizzazione del diritto alla salute secondo criteri di equità e di universalità», spiega invece Chiara Gnocchi, Country Head Comms. & Advocacy di Novartis Italia. Nell’ottica di contribuire alla costruzione di una maggiore equità, «è nata la volontà di sostenere D.i.Re in questo progetto che mette la salute al centro della rinascita dalla violenza e intraprende un percorso di superamento degli ostacoli che allontanano le donne dall’accesso alla prevenzione e ai servizi sanitari». L’augurio, dice infine Gnocchi, «è che questo primo passo possa contribuire a generare un cambiamento concreto».
Cristina Carelli, presidente D.i.Re
Cristina Carelli, presidente D.i.Re

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