«Così l'educazione affettiva previene la violenza»
Parla Alessandra Campani, operatrice di un centro antiviolenza che lavora con le scuole a Reggio Emilia e referente nazionale della Prevenzione di D.i.Re

«Impedire», «obbligare», «controllare», «manipolare»: sono alcune delle parole usate da ragazzi e ragazze durante i laboratori di educazione all’affettività e prevenzione nelle scuole a raccontare con estrema chiarezza la violenza nel quotidiano, ancora prima di sfociare nelle cosiddette “relazioni tossiche” che i centri antiviolenza trattano tutti i giorni. Ce lo spiega Alessandra Campani, operatrice di un centro antiviolenza (Cav) a Reggio Emilia e referente nazionale del Gruppo Prevenzione di D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza). Dalla fine degli anni ’90, con l’associazione “Nondasola” che gestisce il centro, Campani si rivolge alle scuole del territorio con percorsi di prevenzione ad hoc per studenti e adulti.
«Andiamo in aula durante l’orario scolastico ad affrontare temi come consenso, violenza, rispetto e confine attraverso materiali scritti, audio e video, sia raccolti da noi, come per esempio le testimonianze delle vittime che arrivano nel nostro centro, sia presi dalla cultura popolare su suggerimento degli stessi ragazzi, come film, podcast, graphic novel e testi di canzoni rap. Usiamo le storie e gli stereotipi che emergono da questi contenuti come ponte per aiutarli a porre l’attenzione sulle parole e la normalizzazione della violenza», specifica Campani.
La metodologia dell’associazione, in circa un ventennio, si è dunque consolidata nel tempo ma è sempre rimasta aperta agli input che arrivano dall’esterno, adattandosi anche alle diverse età: «Oltre ai linguaggi artistici e poetici proponiamo attività ludiche che permettono sia agli studenti che alle studentesse di sperimentare la relazione tra i corpi in uno spazio condiviso, costruendo delle trame che permettono loro di confrontarsi sul tema proposto». La sfida è passare dalla teoria alla pratica. «Capiscono molto bene cos’è il confine, ma poi condividono tranquillamente foto e video sessualmente espliciti, diffusi senza il consenso delle persone ritratte, o non li cancellano dai propri cellulari una volta ricevuti. Durante i laboratori ci soffermiamo molto su che cos’è l’invasione dello spazio dell’altro, là dove c’è un “no”, ma anche dove c’è un “sì”, per riflettere su come è stato ottenuto», aggiunge. Su questo tema, spiega Campani, va ricordato che la soglia di tolleranza del controllo nelle nuove generazioni è pericolosamente alta: «Sono la generazione della costante esposizione sui social e della geolocalizzazione sui telefoni da parte dei genitori, un aspetto che di per sé normalizza l’idea di essere sempre controllati».

I cambiamenti nei giovani non sono però tutti negativi, anzi. «Nel corso degli anni ho visto crescere la consapevolezza femminile, c’è tra loro un grande slancio, meno punitivo e più orientato verso le possibilità per il loro futuro. Le ragazze sono passate dalla logica del “o… o…” a quelle del “e… e…”, ossia dall’ottica per cui bisognava scegliere tra una relazione affettiva e una carriera a quella in cui invece si possono coltivare entrambe, perseguendo anche il sogno di una professione storicamente appannaggio maschile», racconta. La rivoluzione del punto di vista non riguarda solo le ragazze: «Anche i loro compagni di classe sentono di più, rispetto al passato, il desiderio di prendere parola su un modo diverso di essere maschi, alla ricerca di modelli alternativi a quelli dell’uomo violento. Certo, hanno le loro fatiche e fragilità, ma è positivo il fatto che tentino di costruire la propria identità interrogandosi su come fare per non passare da forme di violenza».

Trattandosi di un processo di decostruzione storica e culturale, puntualizza Campani, i ragazzi non possono farcela da soli, hanno bisogno dell’aiuto degli adulti, e in particolare degli uomini. «Il coinvolgimento di insegnanti, educatori e genitori è fondamentale per creare un circolo virtuoso e un’alleanza in grado di sostenere i e le giovani. Nelle scuole medie, per esempio, l’associazione incontra i genitori sia all’inizio che alla fine dei percorsi con gli studenti e le studentesse. Più i ragazzi e le ragazze sentono che c’è una capacità del mondo degli adulti di vedere la violenza là dove sembra normale e più aiutiamo loro ad acquisire degli sguardi consapevoli». L’associazione da anni si rivolge anche a educatori e insegnanti, adattando il metodo a diversi scopi e fasce d'età: «Con loro ci confrontiamo sulle domande che arrivano dai ragazzi, sulle problematiche che devono affrontare, ma anche sui contenuti delle loro discipline, per capire insieme se ci sono possibili agganci al tema che trattiamo».
Solo applicando in sinergia le quattro “P” della Convenzione di Istanbul – prevenzione, protezione, punizione e politiche –, conclude Campani, si estirpa un fenomeno così radicato: «Come dimostra la nostra associazione da più di vent’anni nelle scuole di tutti gli ordini e gradi, i centri antiviolenza sono una sorta di “mondo accademico della quotidianità”, con un bagaglio di esperienze, competenze e saperi che vanno valorizzati e portati fuori dai Cav per fare formazione ed educazione, con un approccio appunto preventivo e non più reattivo, solo dopo il caso di violenza. Iniziamo col domandarci, “Che cosa è successo in quella comunità prima del fatto di cronaca?”, “Che cosa avremmo potuto fare?”».
Il discorso va dunque spostato dal concetto di “colpa” a quello di “responsabilità”. Perché se è vero che non tutti gli uomini hanno agito violenze più o meno gravi nella loro vita è vero anche che tutti gli adulti sono chiamati a dare esempi comportamentali alternativi a quelli di prevaricazione maschile e sottomissione femminile, ognuno nel proprio ruolo.
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