Come a Firenze i minori stranieri e i giovani italiani riscoprono i propri diritti
di Irene Funghi
Il progetto U-LEAD dell'Istituto universitario europeo mette in moto dinamiche di partecipazione, affiancando studenti delle scuole superiori ai minori stranieri non accompagnati

Valere come gli altri, anche quando si è giovani in un Paese straniero, non dovrebbe essere opzionale. A maggior ragione se si parla adolescenti, per i quali l’attenzione dovrebbe essere doppia. Torna a ripeterlo a Firenze l’Istituto universitario europeo, che ha elaborato un progetto per mettere in contatto tra loro minori stranieri non accompagnati dei centri di seconda accoglienza, studenti delle scuole superiori e giovani adulti, con l’obiettivo di far prendere loro consapevolezza dei propri diritti, sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Anche senza cittadinanza, ciascuno, solo per il fatto di essere un uomo o una donna, tra le altre cose, dovrebbe poter fare sentire la propria voce, partecipare alla vita del Paese in cui si trova, riunirsi pacificamente in associazioni, avere accesso all’istruzione. Per questo l’anno scorso il progetto U-Lead dell’Istituto europeo è partito con un’esperienza pilota, in collaborazione con l’ufficio Unicef di Europa e Asia centrale e il sostegno del Comune di Firenze, per continuare quest’anno in una versione ampliata, che mira ad essere messa a disposizione di altri territori fuori Toscana.
«In collaborazione con Unicef, abbiamo prima studiato per due anni quello che veniva fatto nelle diverse città italiane. I problemi sono nazionali, ma abbiamo visto che le soluzioni devono essere legate alle specificità del territorio – racconta Andrew Geddes, ideatore di U-Lead e direttore del Migration Policy Centre dell’università europea di Firenze –. In tutta Europa il problema dei minori stranieri non accompagnati porta con sé la sfida della partecipazione alla vita del Paese in cui arrivano e il problema della mancanza di fondi dei territori, con il rischio che soggetti molto vulnerabili si avvicinino alla delinquenza. Il tutto accompagnato da molte polemiche: noi, però, abbiamo creduto che fosse possibile fare qualcosa di diverso e più positivo». Così lo scorso anno hanno iniziato ad incontrarsi 12 giovani (6 provenienti dai centri di accoglienza e 6 dalle scuole superiori fiorentine Elsa Morante e Sassetti Peruzzi), diventati, nel nuovo programma, partito lo scorso 9 ottobre, 27. Agli stranieri non accompagnati, 11 adesso, con provenienze da Egitto, Tunisia, Albania, Afganistan e Colombia, si sono aggiunte anche presenze femminili e tra gli studenti c’è chi ha partecipato anche lo scorso anno e adesso ha il ruolo di "Young coach", per accompagnare i nuovi arrivati. «Il successo del progetto pilota è emerso anche dal desiderio di tutti i giovani di partecipare alla nuova edizione» spiega Geddes. Gli studenti inseriscono l’iniziativa nel PCTO (ex alternanza scuola-lavoro) e chi quest’anno ha voluto proseguire ha potuto farlo. Per gli stranieri dei centri «abbiamo concordato con le associazioni che se ne occupano di dare la possibilità anche ad altri di partecipare, ma stiamo lavorando per far mantenere attiva la rete di contatti che si è creata: dopo aver coinvolto questi giovani, non possiamo abbandonarli», dice l’organizzatore.
L’obiettivo è creare gruppi di coetanei tra i 17 e i 19 anni, che, partendo dalla consapevolezza dei propri diritti, «individuino cosa è più importante per loro e lavorino in gruppo per creare momenti di partecipazione su ciò che hanno in comune» ci dice. «Non è un progetto accademico – afferma Geddes, che, come Università europea, ha messo a disposizione un gruppo di dieci persone che seguono i giovani –, i partecipanti hanno livelli di istruzione diversi». Ma insieme si impara a fare ricerca, informarsi, fare interviste e incontrare le istituzioni locali. «Hanno partecipato ai nostri incontri gli assessori regionali e comunali al welfare Serena Spinelli e Nicola Paulesu e i giovani hanno avuto l’opportunità di spiegare loro quale è la realtà che vivono». Per poi proseguire i lavori a gruppi, da presentare con una relazione finale. «Per molti è significato avere l’opportunità per la prima volta di parlare in pubblico ed esprimere le proprie idee» dice il professore. Anche per questo «sono stati momenti molto forti per noi – continua –. Sono emersi vissuti di discriminazione e le difficoltà dell’incontro con lo Stato italiano e del percorso necessario per avere i documenti». Davanti alle quali, però, forse non si sono sentiti soli. «Anche nelle scuole ci sono presenze multiculturali e tra gli studenti coinvolti c’erano anche migranti di seconda generazione», conclude Geddes.
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