Auto, pannelli solari, macchinari:
in Africa la Cina scalza l’Occidente

A causa delle tariffe Usa e della debole domanda interna, Pechino ha accelerato «l’invasione» verso altri mercati, tratteggiandola come «cooperazione Sud-Sud»
October 22, 2025
Auto, pannelli solari, macchinari:
in Africa la Cina scalza l’Occidente
C’è un effetto collaterale della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina che non compare nei grafici di Wall Street ma si avverte nitido nei mercati di Lagos, in Nigeria, nelle officine della capitale keniana Nairobi e nei porti tanzaniani di Dar es Salaam. Da quando Washington ha imposto nuovi dazi sulle importazioni cinesi, Pechino ha reagito spostando la bussola del suo commercio estero. E l’Africa, sempre più centrale nei calcoli di Pechino, ne è diventata la destinazione privilegiata. A settembre le esportazioni cinesi verso il continente africano hanno fatto segnare un +56% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Un balzo straordinario, trainato dalla domanda di automobili, macchinari per costruzioni, acciaio, pannelli solari. Non un episodio isolato, ma l’accelerazione di una tendenza più ampia, quella di un progressivo reindirizzamento del commercio cinese lontano dagli Stati Uniti e verso regioni più ricettive, come l’Africa e il Sud-est asiatico, anche per la parallela diminuzione della domanda interna. Una mossa che di fatto sfrutta anche il progressivo ritrarsi di attori come gli Stati Uniti dal mercato africano, complice il ritorno ai dazi e al protezionismo di Donald Trump. L’Occidente rischia così di “consegnare” definitivamente l’Africa alla Cina.

Gli scambi

Nel 2023, il commercio tra l’Africa subsahariana e gli Stati Uniti aveva raggiunto i 47,5 miliardi di dollari, di cui 29,3 miliardi di esportazioni africane verso il mercato americano. Tra i principali prodotti esportati, petrolio, metalli preziosi e altre materie prime, i veicoli e l’abbigliamento. Il mancato rinnovo da parte di Washington degli accordi Agoa, storico provvedimento commerciale preferenziale, aveva finora consentito alle merci di 32 Paesi africani di godere di un accesso privilegiato al mercato americano: i contraccolpi economici-sociali delle scelte di Washington rischiano ora di trasformarsi in voragini sul fronte dell’occupazione e delle opportunità di sviluppo in quei Paesi. Parallelamente, nei primi otto mesi del 2025, il volume complessivo degli scambi tra Cina e Africa ha invece già superato i 220 miliardi di dollari, con un incremento del 15% su base annua. E a settembre la curva ha toccato una pendenza mai vista, segno che Pechino ha imboccato con decisione la via africana come alternativa strategica all’erosione del mercato americano.
In molti Paesi africani si moltiplicano i container pieni di automobili cinesi, escavatori, gru, gruppi elettrici e generatori. Solo nella prima metà del 2025 le esportazioni di macchinari per costruzioni sono aumentate del 58,5% rispetto all’anno precedente, e quelle di componenti per impianti energetici di oltre il 51%. A questi flussi si somma il boom dell’energia solare: tra luglio 2024 e giugno 2025 l’Africa ha importato 15.032 megawatt di pannelli fotovoltaici cinesi, un salto del 60% che segna il consolidarsi di una dipendenza energetica “verde” da Pechino. Inoltre, nei primi cinque mesi del 2025, la Cina ha esportato 222mila tra auto e autobus in Africa, con un +67% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso.
In Ghana, in Kenya, in Etiopia, il risultato è visibile a occhio nudo: telefoni, motociclette, utensili elettrici, macchinari e veicoli di manifattura cinese affollano mercati e vetrine. Prezzi bassi, tempi di consegna brevi, pagamenti agevolati in yuan. Per milioni di consumatori africani è un vantaggio immediato. Per le industrie locali, invece, un colpo durissimo. La produzione tessile gha nese ha perso oltre il 12% in tre anni, mentre in Kenya un terzo delle piccole imprese che assemblavano apparecchi elettronici ha chiuso i battenti. È il paradosso del nuovo equilibrio globale: l’Africa diventa crocevia del commercio mondiale, ma rischia di restare un attore passivo di una partita giocata altrove.

La cooperazione «Sud-Sud»

Pechino, d’altra parte, non si limita più a esportare. In diversi Paesi africani ha cominciato a installare basi produttive, spesso nelle zone economiche speciali nate con la Belt and Road Initiative. Dalle fabbriche di assemblaggio di veicoli elettrici in Etiopia agli impianti per la lavorazione dell’acciaio in Zambia, la Cina delocalizza in Africa per aggirare le barriere doganali americane e continuare a far circolare le proprie merci. È una mossa economica ma anche un calcolo geopolitico: trasformare il continente in un’estensione delle proprie catene del valore, un laboratorio dove sperimentare un nuovo modello di globalizzazione decentrata. La narrativa ufficiale di Pechino parla di “reciprocità” e di “cooperazione Sud-Sud”. A sostegno di questa immagine, la Cina ha progressivamente aperto i propri mercati ai prodotti africani, azzerando i dazi su oltre 1.800 categorie merceologiche provenienti da 33 Paesi e promettendo di estendere il beneficio all’intero continente. Caffè, cacao, tè e fiori trovano oggi spazio crescente nelle fiere commerciali cinesi. Ma la realtà rimane sbilanciata.
Le esportazioni africane verso la Cina restano dominate da petrolio, rame, oro e minerali grezzi, che rappresentano oltre i tre quarti del totale. I beni agricoli o trasformati, pur in aumento, incidono ancora in modo marginale. Lo scambio commerciale resta quindi asimmetrico: dall’Africa partono risorse, verso l’Africa arrivano beni finiti, tecnologia e credito. La China Development Bank ha di recente erogato una prima tranche di finanziamenti pari a 245 milioni di euro per un progetto ferroviario in Nigeria e ha esteso un prestito per la costruzione di infrastrutture in Egitto.

Gli squilibri

Questo squilibrio ha effetti strutturali. Nel solo periodo gennaio-agosto 2025, il disavanzo commerciale complessivo dell’Africa con la Cina ha sfiorato i 60 miliardi di dollari. Un segno di come il continente, pur diventando indispensabile per la diversificazione cinese, rischi di dipendere sempre più da Pechino per il proprio approvvigionamento industriale. E mentre Stati Uniti e Unione Europea riducono progressivamente la loro presenza, la Cina consolida la propria influenza economica e diplomatica: costruisce infrastrutture, offre prestiti a lungo termine, finanzia centri di formazione tecnica, propone un linguaggio di cooperazione privo delle condizionalità democratiche che caratterizzano gli accordi occidentali.
Il risultato è un riequilibrio geopolitico. Secondo l’Unctad, la quota europea nelle importazioni africane è scesa al 23%, quella statunitense al 6%. La Cina invece ha superato stabilmente il 27%, e in Paesi come Angola, Zambia o Repubblica democratica del Congo controlla ormai metà del commercio totale. In molti Paesi la competizione interna si indebolisce, la produzione autoctona si assottiglia. La guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, pensata per contenere l’espansione economica di Pechino, ha finito così per accelerarne la proiezione verso altre rotte. L’Africa ne è divenuta la grande protagonista, ma anche la grande incognita. Se saprà trasformare questa ondata di investimenti e scambi in sviluppo industriale autonomo, potrà risalire la filiera globale. Se invece resterà solo il mercato di sbocco della nuova manifattura cinese, la promessa di un continente “partner alla pari” rischia di restare, ancora una volta, un racconto sbiadito.

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