Vita

Vita. 10mila euro per morire: il suicidio assistito viaggia sulla rotta Italia-Ticino

Danilo Poggio giovedì 22 dicembre 2016

Una «casa» di Liberty Life nel Ticino

Tutti parlano di "cliniche svizzere", ma in realtà i luoghi del suicidio assistito in terra elvetica non assomigliano per nulla a strutture sanitarie. Spesso sono soltanto stanze arrangiate alla meglio, in camere d’albergo o appartamenti qualunque, affittati o messi a disposizione per lo scopo. Quando accade che i vicini si lamentano per l’eccessivo via vai di bare, ci si sposta in un’altra sede temporanea. In altri casi è stato utilizzato uno spazio all’interno di un ex centro estetico in area industriale, oppure, quando è possibile, si agisce a domicilio. Il tutto è più o meno legale, e si basa sul fatto che il Codice penale svizzero sanziona soltanto chiunque «per motivi egoistici istiga alcuno al suicidio o gli presta aiuto». Insomma, se lo scopo dell’assistenza non è "egoistico", secondo una certa interpretazione attuale, non si configurerebbe un reato.

A differenza di Olanda e Belgio, dove esiste una normativa specifica sull’eutanasia che non punisce il medico anche se pone fine alla vita del paziente in modo attivo, qui si sfrutta una condizione di fatto e una lacuna del diritto. Nel corso degli anni sono sorti gruppi specializzati: Dignitas, Exit, LifeCircle, Eternal Spirit e Liberty Life, con la motivazione ufficiale di garantire a tutti «la possibilità di morire dignitosamente», in vario modo forniscono tutti i servizi necessari. E, visto che la legislazione elvetica lo permette, quest’opera viene condotta per tutti, senza alcuna distinzione di provenienza dei malati e indipendentemente dalla legislazione dei singoli Paesi.

La procedura è più o meno sempre la stessa. Di solito si inizia con l’iscrizione a una delle associazioni specializzate e, dopo l’esame a distanza della cartella clinica da parte di un medico, viene comunicata la "luce verde provvisoria". A quel punto, il malato può recarsi in Svizzera, e dopo uno o due colloqui, se conferma la sua intenzione, nel giro di poche ore viene aiutato a uccidersi. Come spiega chiaramente una delle associazioni più attive con gli italiani, «Dignitas si procura il farmaco necessario. Dopo l’assunzione di un medicamento antiemetico, il paziente dovrà bere un bicchiere nel quale verranno sciolti solitamente 15 grammi di pentobarbital di sodio/NaP. Si tratta di un noto narcotico che procura il sonno. Poiché è alcalino e non gradevole al gusto è meglio mangiare o bere subito dopo qualcosa di dolce.

Al termine di queste procedure, il socio si addormenta ed entro due, tre minuti entra in un coma profondo, dopo poco tempo ancora la medicina paralizza la respirazione e il paziente muore». Spetta infine agli operatori chiamare le forze dell’ordine: «Quando sono convinti della morte del socio, fanno le condoglianze alle persone che hanno accompagnato il defunto e quindi informano la polizia tramite il numero di telefono di emergenza, in modo che possano aver luogo gli accertamenti da parte delle autorità». Naturalmente il farmaco non è acquistabile liberamente in farmacia senza ricetta del medico: se fosse difficile procurarsela, «Dignitas può ricorrere a medici svizzeri indipendenti che collaborano con l’organizzazione».

Un punto resta essenziale: a differenza dei Paesi dove l’eutanasia è normata, in Svizzera deve essere salvata (almeno formalmente) l’apparenza del "suicidio volontario". La morte, cioè, non può essere procurata attivamente da un soggetto terzo: il malato deve bere da solo il liquido letale o attivare l’iniezione con un telecomando davanti al personale presente. Sebbene per le organizzazioni operanti non debbano esserci motivi egoistici, il suicidio assistito in Svizzera non è certo a buon mercato. Il malato paga circa 10mila euro: il costo per gli oneri amministrativi nella fase di preparazione è di 3.500 euro, 1.000 euro per i colloqui con i medici, e 2.500 per l’accompagnamento alla morte, con la remunerazione per gli operatori, cui si aggiungono altri 1.000 euro per l’iter burocratico dopo il decesso e naturalmente 2.500 euro per le esequie. Costi di viaggio e soggiorno esclusi, per il malato e per l’accompagnatore.

I numeri del fenomeno non sono chiarissimi, ma si parla di circa un migliaio di suicidi assistiti all’anno in tutta la Svizzera. In Canton Ticino – come Avvenire ha documentato l’8 dicembre – nel 2016 i due terzi degli oltre 50 casi registrati sinora arrivano dall’Italia. Exit Italia, con la sua storica sede a Torino, è forse l’associazione più attiva sul territorio nazionale, con un’importante presenza anche sui social network: «Noi ci limitiamo a informare sulla possibilità del suicidio assistito – spiega Silvio Viale, ginecologo torinese, militante radicale, impegnato nella campagna pro-eutanasia – ma non istighiamo e non abbiamo mai un ruolo attivo. Ogni settimana arrivano diverse telefonate per saperne di più, ma poi chi va in Svizzera è accompagnato da un amico o da un familiare. Non certo da noi».

Il tesoriere dell’associazione radicale Luca Coscioni, promotore della campagna per l’eutanasia legale, Marco Cappato, si spinge un po’ più in là: in due casi ha dato personalmente supporto logistico ed economico: «La prima volta ne ho dato conto pubblicamente, la seconda mi sono autodenunciato ai carabinieri. Non è mai successo nulla. Questo fa pendere verso la possibilità che non ci siano responsabilità penali, anche se sono pronto a rivendicare la legittimità dell’azione, alla luce delle libertà costituzionali. Solo nell’ultimo anno, 113 persone si sono rivolte a me, anche attraverso "Sos Eutanasia", per avere informazioni. Ma non è possibile sapere quanti abbiano dato seguito alle intenzioni».

Restano però non pochi dubbi sulla legalità dell’accompagnamento al suicidio in Italia: «Una società solidale si fa carico dell’altro – spiega Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica – anche quando affiancarlo nella sua debolezza implica impegno e costi. Ed è per questo che il diritto non ammette una relazione per la morte, che azzera attraverso la morte sia quell’impegno sia quei costi. Altra cosa è discutere della proporzionatezza e della pianificazione delle terapie. Ciò al di là del fatto che la cooperazione a un suicidio assistito o a un omicidio del consenziente restano penalmente perseguibili, pur se consumati all’estero».