Chiesa

Il tema. Perché ci sono pochi bambini santi

Riccardo Maccioni giovedì 22 agosto 2019

I pastorelli di Fatima

Il test è facile facile. Proviamo a immaginare il Paradiso. Semplicemente, al di là delle riflessioni teologiche. Molti com’è ovvio lo penseranno popolato da un gran numero di bambini. Specie quelli vittime di malattie e violenza. Un’idea rafforzata dalla tenerezza che alimenta i sogni degli adulti, da molta letteratura “spiritual-romantica”, dall’amore per i propri figli. Soprattutto dalla lettura dei Vangeli, dove Gesù ammonisce: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei cieli». E ancora: «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio».

La questione dell'età


Eppure per trovare i primi bambini, non martiri, riconosciuti ufficialmente santi si è dovuto aspettare il 13 maggio 2017 e i pastorelli di Fatima: Francesco e Giacinta Marto. Un’apparente “lacuna” che si spiega con la prudenza legata al concetto di maturità, di consapevolezza delle proprie azioni. Si trattava cioè di capire a quale età un bambino è in grado di capire cosa siano le virtù cristiane e quindi di scegliere di viverle, fino all’eroismo. Tema che ha animato il dibattito della Chiesa per decenni e che in qualche modo continua ancora, sebbene nel 1981, in assenza di leggi canoniche, si sia espressa la Congregazione delle cause dei santi stabilendo che a sette anni una persona è in grado di rispondere consapevolmente alla grazia di Dio.
«Il dibattito – commenta monsignor Ennio Apeciti rettore del Pontificio Seminario Lombardo, consultore della Congregazione delle cause dei santi e responsabile dell’Ufficio delle cause dei santi dell’arcidiocesi di Milano – riguardava la cosiddetta santità canonica, la necessità di verificare se tutte le virtù erano state vissute in modo eroico e per un lungo periodo. Un problema, quello della sufficiente maturità che si dibatteva anche al tempo di Pio X riguardo la Comunione ai bambini. Siccome il processo canonico antico era molto severo e chiedeva la verifica anche delle intenzioni, ci si chiedeva quanta volontà ci potesse essere nei piccoli, quanta partecipazione personale superiore alla media nel vivere le virtù. Quando si parla dei bambini infatti si tende a dire che sono spontanei, semplici, il che sembra escludere quell’esercizio della volontà ritenuto fondamentale».

Per i martiri il discorso cambia.

Anche a proposito di martirio si è andato scoprendo che nei bambini spesso c’è una coscienza che lascia esterefatti. Il martire non agisce mai solo per sua volontà. C’è sempre un intervento della grazia che rende capaci di affrontare situazioni come la persecuzione e la morte. Intendo dire che anche un bambino può agire andando oltre le capacità e l’intelligenza riconducibili all’età, con una coscienza, una maturità che sfugge alle possibilità di un piccolo normale. C’è il sostegno dell’azione di Dio.

Almeno sette anni

Nel 1981 la plenaria della Congregazione delle cause dei santi ha indicato come età minima per essere canonizzati i sette anni.
La questione si era posta per casi come quello di san Domenico Savio, morto a 15 anni da compiere, e successivamente dei pastorelli di Fatima. Si è applicato anche alle cause dei santi il criterio di san Pio X sull’accesso alla Comunione, di quando cioè si è in grado di capire che non si tratta soltanto di pane ma del corpo di Cristo, l’età nella quale uno è in grado di apprendere, di riflettere sulle cose che fa.
In qualche modo una scelta collegata all’abbassarsi dell’età necessaria per ricevere la Prima Comunione.
Esatto. Il criterio è quello della maturità sufficiente.
Ma esiste anche una santità specifica dei piccoli, diversa da quella degli adulti? Ovvero i bambini santi restano bambini?
Certo, non devono essere adulti in piccolo. Restano bambini normali che vogliono divertirsi e che giocano, mettendo però nella freschezza tipica della loro età un amore appassionato per il Signore, che si manifesta nel parlare di Lui con entusiasmo e in una preghiera, anche qui nello stile dei piccoli, spontanea, semplice, che però mostra la partecipazione del cuore, la convinzione profonda.
È diverso, magari più difficile seguire una causa che riguarda un bambino?
È richiesta più prudenza, se così si può dire, perché devi stare attento a non leggere un bambino con gli occhi di un adulto o soltanto alla luce del catechismo. Nel caso di un piccolo si tratta di capire perché è riuscito a fare cose che hanno colpito gli altri, è molto importante la fama di santità. La causa di un bambino chiede ai giudici la prudenza, l’accortezza di non trattarlo da adulto, di ricordarsi che ha vissuto il Vangelo da bambino, secondo la sua età. L’adulto tante volte va sottoposto a verifiche, il bambino è più lineare, più semplice. Non puoi pretendere da lui una grande riflessione ma spontaneità e freschezza, caratteristiche che ti provocano.

Una fede fresca


Lei ha seguito il processo di Carlo Acutis, morto quindicenne nel 2006 e dall’anno scorso venerabile.

La sua è stata una vita bella, di un ragazzo preadolescente come sono tutti. Normale, tanto che a scuola copiava e qualche volte non faceva i compiti. Però aveva la capacità di dialogare, di incontrare, di appassionarsi e una grande attenzione a tutti i poveri. Non era rinchiuso o annoiato, sapeva voler bene. Ma di lui colpisce anche la modernità, era un giovane del suo tempo, non uno spiritualoide ma un appassionato di Dio. C’è poi il mistero della sua fama: come mai questo giovane, apparentemente come tutti gli altri, ha colpito tante persone?
Aveva il coraggio di fare scelte forti.
Se guardi dentro la sua vita vedi che a scuola era un testimone senza mezzi termini, che era uno appassionato della vita, che amava lo sport e le cose belle. Un giovane che navigava su internet, moderno dunque, ma che poi dialogava con gentilezza con il suo domestico, in pratica convertendolo, capace di diventare stimolo per i suoi genitori, di trascinarli. Però il grande mistero o miracolo di Carlo, ripeto, è legato alla diffusione della sua fama nel mondo intero. Mi impressionavo quando chiamavano dal Brasile, dall’America per sapere di uno che in apparenza era stato solo un bravo ragazzo, un bravo figlio, un ragazzo d’oratorio come tanti. Qui tocchi con mano il mistero di Dio, che è come se l’avesse scelto per essere mostrato a tutti, un esempio. Carlo è veramente il santo della porta accanto, come dice papa Francesco.

Non adulti in miniatura


Siamo abituati a quelle agiografie un tantino stucchevoli, dove sono tutti perfetti, mentre i santi sono persone con le loro mancanze, le loro imperfezioni.
Proprio come tutti noi, hanno qualità e difetti. Non bisogna essere nati santi, santi si diventa, vivendo quello in cui si crede. Come hanno fatto Carlo Acutis e tanti altri giovani.
Leggendo la vita dei pastorelli di Fatima, morti lui a 10 anni e lei a 9, ti accorgi che temevano il buio e la solitudine, come tutti i bambini.
Però poi Francesco consolava Giacinta. Il santo ha in sé una forza che gli dà una marcia in più. Può essere uno che si arrabbia, si alza in classe e sgrida i compagni, quello che la professoressa richiama e gli dà la nota, però quando parli della sua fede, non la nasconde.

Cosa ci insegnano i piccoli


Diceva all’inizio che i bambini non vanno considerati adulti in miniatura. Ma la santità dei piccoli cosa insegna ai grandi?
Da loro si può imparare una fede non incerta, che non sprofonda in mille considerazioni e osservazioni, quello slancio profondo che ti porta a dire: mi fido di quello che credo. Se Dio c’è, se quello che mio papà e mia mamma mi hanno insegnato su di Lui è vero, allora mi fido. I bambini ci insegnano la fiducia, e in un’epoca del sospetto non è poco. E poi quello che non so se chiamare entusiasmo, la semplicità. Intendo la freschezza, il non essere problematici. Per un bambino può essere bello tagliare la coda alla lucertola e subito dopo lo senti parlare con tenerezza della Madonna o di Dio. E poi il bambino, il ragazzo non è incerto, per certi verso ha coraggio, non si fa spaventare dalle cose esterne, può aver paura del buio ma non si fa fermare... va, non si tira indietro.
Una qualità che tra gli adulti latita.
Oggi c’è tanto bisogno di persone che non si tirano indietro. E di fiducia. I bambini sono "normalmente" semplici, umili, non hanno presunzioni di sé, hanno molta fiducia negli altri. Perché ci credono. E questo è un grande insegnamento, mi fa venire in mente l’invito di san Paolo a gareggiare nello stimarsi a vicenda. Il bambino sempre, normalmente, stima l’altro, se l’altro è sincero. Percepisce la verità. È il segreto dei piccoli, leggono nel cuore, non nelle parole.