Agorà

Idee e simboli. Se gli scacchi diventano una metafora della vita

Carlo Ossola venerdì 4 marzo 2022

Giulio Campi, “La partita a scacchi”, 1530 circa. Torino, Palazzo Madama

Una scacchiera sugli scogli, lambita dai marosi, e un cavaliere reduce dalle crociate. Così inizia Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman. Avanza un personaggio in nero: «Chi sei tu?», «Sono la Morte», risponde al cavaliere Antonius Block (un indimentacabile Max von Sydow) l’impassibile figura; inizia così una partita sui destini ultimi: «Dando scacco alla Morte, avrò salva la vita», ma la Morte replica: «Non ho mai perso una sola partita». E tuttavia - come per Shahrazad - più importante è, in sé, la prova e la 'tenuta': «fino a che punto saprò resistere».

Che Franco Maria Ricci Editore incrementi la propria attività sotto questo segno, con un mirabile volume di scacchiere e cavalieri di ogni fattura, dall’avorio al marmo, dall’ebano dipinto alla ceramica, con figure antropomorfe o entomologiche, dall’India alla Cina, al Malabar, a Goa - Zachary F. Mainen, Razvan Sandru, Stefano Salis, Adolivio Capece Sulla scacchiera Arte e scienza degli scacchi Franco Maria Ricci/Champalimaud Foundation. Pagine 166. Euro 57,00 -, è segno che ogni vera impresa è sempre apocalittica, rivelatrice di destini della storia umana, come osservava Massimo Bontempelli nella Scacchiera davanti allo specchio (1922), opportunamente citato da Stefano Salis nel suo denso e acuto saggio: «Tutto quello che accade tra gli uomini, specialmente le cose più importanti che si studiano poi nella storia, non sono altro che imitazioni confuse e variazioni impasticciate di grandi partite a scacchi».

Gioco agonico, esso è tuttavia la ricerca della perfezione sotto l’attesa della morte (lo "scacco matto"), come ha osservato Roger Caillois nel suo saggio Cases d’un échiquier, 1970: «Con pazienza, menti insoddisfatte vi cercarono la perfezione, che sempre è economia». L’infinita guerra del possibile (le combinazioni di 'mosse' che può attivare l’avversario e le repliche conseguenti) è tutta in uno scenario mentale, che non precipita in atto se non nella contrazione di un gesto che deve sviare il calcolo altrui, in un dosaggio di difesa, previsione, strategia che - nel cuore del dispiegamento - rompe le gerarchie (dame, cavalieri, alfieri, pedoni) per dirimere, dar senso, attraversare un unico intenso reticolo di «correlazioni, intrecci, incroci, […] di cui è segnata o illuminata l’epidermide del mondo».

L’osservazione di Caillois è ripresa, quasi subito, da Italo Calvino nelle sue Città invisibili (1972): come rendere essenziale, coerente, la rappresentazione del mondo, riconducendo l’effimero a linee di durata, le città a quadrati di una geometrica scacchiera? «Tornando dalla sua ultima missione Marco Polo trovò il Kan che lo attendeva seduto davanti a una scacchiera. Con un gesto lo invitò a sedersi di fronte a lui e a descrivergli col solo aiuto degli scacchi le città che aveva visitato. Il veneziano non si perse d’animo. Gli scacchi del Gran Kan erano grandi pezzi d’avorio levigato: disponendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombrosi, addensando sciami di pedine, tracciando viali diritti o obliqui come l’incedere della regina, Marco ricreava le prospettive e gli spazi di città bianche e nere nelle notti di luna. Al contemplarne questi paesaggi essenziali, Kublai rifletteva sull’ordine invisibile che regge le città, sulle regole cui risponde il loro sorgere e prender forma e prosperare e adattarsi alle stagioni e intristire e cadere in rovina» ( VIII, cornice).

Qualcosa di simile accadde all’uomo del Rinascimento nell’invenzione della prospettiva: far sì che una fuga di linee oblique desse profondità, misura della distanza, a una superficie tutta piatta; similmente Kublai Kan cerca una regola che si concentri nello spazio della scacchiera: «Alle volte gli sembrava d’essere sul punto di scoprire un sistema coerente e armonioso che sottostava alle infinite difformità e disarmonie, ma nessun modello reggeva il confronto con quello del gioco degli scacchi. Forse, anziché scervellarsi a evocare col magro ausilio dei pezzi d’avorio visioni comunque destinate all’oblio, bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni successivo stato della scacchiera come una delle innumerevoli forme che il sistema delle forme mette insieme e distrugge.

Ormai Kublai Kan non aveva più bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell’impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s’aprono alle incursioni dell’alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell’umile pedone, dalle alternative inesorabili d’ogni partita». È il sogno antico di inglobare in sé l’alternativa, di non lasciare nulla all’alterità, di creare come nel Settecento - un invincibile Turc mécanique.

Ma la vera partita di scacchi è come il concerto rispetto alla partitura: l’evento che dà vita, per un intervallo di tempo, a un disegno che era nella probabilità della concatenazione delle mosse come nella mente dei compositori; così, oggi, non è tanto importante che un computer calcoli tanto bene da vincere l’uomo, bensì che colui che gioca sappia che la sua partita, la sua autentica sfida, è 'rinviare la fine'... Se l’equivalenza tra possibile e accaduto fosse perfetta, avrebbe ragione Kublai Kan: «A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla...».

Ci insegna invece Bergman che solo dando a priori la partita per persa, si può prolungare il fascino del meditare senza concedere: in ogni nostro gesto contemplando non la mossa, ma «la gioia smisurata di una mano che si muove» ( Il settimo sigillo), in ogni nervatura delle dita tendendosi, resistenza e resa.