Agorà

Passato e presente. Roma e i Goti: i muri, la paura e i mondi possibili

Alessandro Capone giovedì 18 novembre 2021

L'imperatore Teodosio e la sua corte. Rilievo della base dell'obelisco di Teodosio, 390/395 ca, Ippodromo di Costantinopoli

È di questi giorni la richiesta di un buon numero di Paesi europei, perlopiù dell’Est, di costruire barriere che proteggano le frontiere dalle migrazioni di popoli provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Sbarramenti di questo tipo sarebbero un’efficace misura di protezione per gli interessi dell’intera Europa e ridurrebbero i fattori di attrazione. Possono esserci vari motivi che spingono a costruire muri per difendersi, uno di questi è certamente la paura, che sempre entra in gioco nei momenti drammatici della storia, tanto da diventare in certi casi un’ossessione per un pericolo che sembra mettere in crisi la stessa sopravvivenza nazionale. In situazioni simili pare che s’imponga una sola soluzione: la chiusura. Eppure non sempre è stato così! Per anni anche i Romani hanno fatto i conti con una paura simile e in modo ancor più critico nel IV secolo d.C., quando su più fronti dovettero contrastare le cosiddette “invasioni barbariche”, che l’attuale storiografia tedesca, abbracciando un punto di vista diverso, preferisce più correttamente chiamare “migrazioni dei popoli”. Ebbene, la crisi sollevata dal confronto con questi popoli suscitò talvolta una risposta alternativa a quella dettata dalla paura. La svolta avvenne quando i Romani intuirono il fatto che queste popolazioni potevano essere anche una risorsa: difendere l’impero non significava pertanto chiudere i confini o portare avanti una guerra a oltranza, ma accogliere questi popoli nel proprio territorio con un trattamento speciale.

È il caso del patto stipulato tra Romani e Goti il 3 ottobre 382. I Goti, che aveva rovinosamente sconfitto i Romani ad Adrianopoli il 9 agosto 378, venivano accolti come foederati nell’area del Danubio: a loro veniva concesso di vivere secondo le proprie leggi, di essere esenti dalla tassazione, di poter lavorare e per di più ricevevano finanziamenti annuali da parte dell’impero; in cambio i Goti dovevano prestare servizio militare nell’esercito romano. Questo patto fu il frutto dell’abile e lungimirante politica dell’imperatore Teodosio, il quale era ben consapevole di non poter più contenere le scorribande dei Goti e allo stesso tempo doveva fare i conti con la necessità di soldati per rinsaldare l’esercito romano. Per alcuni anni il patto garantì una situazione di relativa tranquillità nella zona dei Balcani: la pace era nell’interesse delle popolazioni che erano state accolte come anche la difesa del confine danubiano. Così, un retore del tempo, Temistio, lodò la soluzione adottata dall’imperatore romano, perché rinunciava all’obiettivo di annientare i Goti, per trovare fattivamente una possibilità pacifica di integrazione, che offriva indubbi vantaggi all’impero romano. Nel discorso pronunciato a Costantinopoli nel 383 per elogiare il console Saturnino, che l’anno prima aveva negoziato per conto dell’imperatore il patto con i Goti, Temistio afferma che la filantropia prevale sulla distruzione e che i barbari trasformano le loro armi in zappe e falci e coltivano campi.

Al netto della retorica, emerge il profilo di un imperatore capace di leggere la realtà storica con una lucidità maggiore di quella dei predecessori: alla chiusura ostinata sostituisce un’apertura ragionevole, all’opposizione senza sosta un’integrazione realistica, alla conservazione dell’esistente una progressiva assimilazione. Con Teodosio, in maniera più marcata che in precedenza, l’impero cominciò ad assorbire quelle popolazioni che erano spinte della fame, dalla guerra e da altri popoli violenti e che vedevano nell’impero romano un’attrazione irresistibile. Fu l’inizio di un profondo cambiamento per l’impero, che per anni è stato considerato nei termini di declino e caduta, ma che in realtà rappresenta il graduale processo storico di una trasformazione: sta all’intelligenza dei governanti capirne previdentemente la direzione, fare in modo che non sia la paura a dettare le scelte politiche e trasformare di conseguenza in risorse quei fattori che a primo acchito possono apparire solo come minacce.