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Il nuovo “Luoghi dell'Infinito”. Percorrere il Sinai tra Bibbia e carovane

Gianfranco Ravasi domenica 30 agosto 2020

William Dyce, L’uomo dei dolori (1860 circa), olio su tavola. Edimburgo, National Galleries of Scotland

Tanto affascinanti quanto spaventose, le immagini delle città completamente prive di vita hanno fatto il giro del mondo. Abbiamo scoperto che il deserto può essere più vicino di quanto si pensi. Le pagine del numero 253 di "Luoghi dell’Infinito", il mensile di arte, cultura e itinerari di "Avvenire", in edicola da martedì, intendono riscoprire le tante versioni, immagini e idee di deserto. Il numero è aperto da due editoriali. Nel primo la storica dell’architettura Maria Antonietta Crippa passa in rassegna la fortuna recente del deserto come luogo spirituale; nel secondo il poeta Guido Oldani osserva il deserto come condizione esistenziale propria della contemporaneità. Ad aprire lo speciale è il cardinale Gianfranco Ravasi, che racconta il deserto come un habitat naturale della Bibbia. Lo storico Franco Cardini rievoca invece l’epopea della nascita del monachesimo. A un moderno padre del deserto, Charles de Foucauld, è dedicato l’inedito di Anna Maria Cànopi, mentre sul deserto aperto sul mondo della cella del monaco interviene la carmelitana Maria Cristiana Dobner.

«Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci. Ha, però, creato anche il deserto perché l’uomo possa ritrovare la propria anima». È la voce di un popolo che nel deserto ha il suo habitat. Un tempo erano famosi come predoni, ora sono carovanieri che vagano negli spazi sconfinati e assolati del Sahara coi loro cammelli e i loro prodotti di artigianato in cuoio o metallo. Sono i tuaregh, cultori di una sapienza popolare affidata al bagliore dei proverbi, come quello da noi citato. Certo, nelle distese sterminate dell’area in cui essi vivono come nomadi, i laghi e i fiumi sono quasi un miraggio. Ma talora ecco misteriosamente sbocciare un’oasi verdeggiante o aprirsi un pozzo ricco d’acqua. È con questi doni della natura che il tuaregh può vivere fisicamente dissetandosi. Ma poi, per ore e ore, è il grembo del deserto ad accoglierlo, un luogo che sembra parlare solo di morte. In realtà, come insegna l’aforisma, è in quel silenzio infinito che l’uomo ritrova la sua anima, cioè se stesso. Lasciamo, ancora, alla sapienza tuaregh la parola con un altro proverbio: «Se una madre ha nel ventre un figlio, è come una tenda quando soffia il ghibli, è come un’oasi per un assetato». Il nostro breve percorso, però, si orienta ora verso un deserto che è, sì, anche reale ma che ha molteplici risonanze simboliche, è quello che si allarga in molte pagine bibliche. Certo, nelle Sacre Scritture la terra arida è innanzitutto una realtà spaziale e geografica: c’è, ad esempio, il deserto del Sinai, dominato da un sole incandescente e da rocce plasmate dal vento; c’è il deserto stepposo di Giuda nel cui cuore si levano città evocative come Gerusalemme, Betlemme, Gerico, Hebron, Bersabea; c’è il deserto arabico da cui provenivano le carovane con merci esotiche, evocate anche nei testi sacri. Denominato con termini differenti - prevalente è l’ebraico midbar (vocabolo che curiosamente ha alla base la radice dbr, la stessa di dabar, 'parola') e il greco eremos - il deserto diventa, però, spesso un simbolo spirituale.

Così, durante la famosa vicenda esodica Israele vive nel deserto sinaitico non solo una fase storica intermedia tra la liberazione dall’oppressione faraonica e l’ingresso nella terra promessa ma anche un’esperienza umana e religiosa. È, infatti, da un lato, il tempo della tentazione che spinge il popolo non solo a scegliere un idolo da adorare, come il vitello d’oro (Esodo 32), ma anche a dubitare del Signore, a ribellarsi a lui a alla sua guida, Mosè, e a ritornare con nostalgia al passato egiziano. In questa luce, quasi in controcanto, è esemplare il soggiorno che Gesù compie nel deserto alle soglie della sua missione pubbli- ca, vincendo la tentazione satanica (Matteo 4,1-11). Agli occhi degli evangelisti egli è l’Israele fedele che si affida alla parola di Dio, senza cadere nella 'mormorazione', termine col quale nella Bibbia si designa l’incredulità del popolo ebraico nel deserto (Esodo 16, 2). D’altro lato, però, la solitudine desertica, che riduce l’uomo all’essenzialità e lo riporta alla sua coscienza, diventa anche il simbolo dell’intimità tra Dio e il suo popolo. Israele impara che «l’uomo non vive di solo pane ma di quanto esce dalla bocca del Signore» e scopre Dio come un padre che corregge il suo figlio e si premura del suo cibo, della sua sete, del vestito e del piede gonfiato nella marcia (Deuteronomio 8,3-5). Non per nulla è nel deserto del Sinai che avviene la grande rivelazione della Legge che sarà lampada per i passi nel cammino di Israele, soprattutto attraverso il Decalogo. Così, il deserto diventa non solo il luogo della tentazione ma anche per eccellenza la sede dell’incontro trascendente, della solitudine dolce, tenera, appassionata. Nel capitolo secondo della profezia di Osea c’è una pagina letterariamente stupenda che descrive la storia di un tradimento. È la vicenda della moglie, Gomer bat-Diblaim, che ha tradito e abbandonato il profeta, ma che egli continua ad amare. Osea sogna che ritorni ancora da lui e dai tre figli e che si riproduca una sorta di paradiso terrestre per loro due nell’abbraccio. Un luogo d’incontro che non si identifica in un’oasi verdeggiante o in una grande città affascinante incastonata nelle regioni aride, come possono essere Damasco o Gerusalemme.

Il profeta sceglie, invece, la valle di Acor, una valle del tutto desolata del deserto di Giuda (il toponimo rimanda in ebraico appunto all’idea di 'desolazione'). E là confessa il profeta - noi due soli ci stringeremo ancora l’uno con l’altra: io «la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore» (2,16). Non parlerò al cuore, ma sul cuore, immaginando che solo nel deserto si possa ricucire e riprendere tutta l’intensità di una passione e di un abbraccio amoroso. La desolazione della steppa si trasforma, quindi, nella sede di un incontro d’amore, ed è per questo che, quando Israele vivrà l’esperienza di quel nuovo esodo che è il ritorno dall’esilio babilonese verso la terra abbandonata dopo la distruzione di Gerusalemme (586 a.C.), il profeta noto come il Secondo Isaia, il cui testo è inserito nel grande 'rotolo' del profeta maggiore, Isaia appunto, canterà: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa... Pianterò cedri nel deserto, acacie, mirti e ulivi, porrò nella steppa cipressi, olmi insieme con abeti» (Isaia 35,1; 41,19). Il deserto, nel quale risuona la voce forte del Battista, è quindi un luogo rischioso di tentazione e di peccato, ma è anche l’orizzonte dell’intimità, del silenzio, della rivelazione e dell’ascolto, dove il Signore ti «conduce come un uomo porta il proprio figlio» (Deuteronomio 1,31). E il Signore stesso confessa a Israele: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata » (Geremia 2, 2). È, perciò, evidente nel tema biblico del deserto il sovrapporsi di due profili, il topografico e il metaforico. Papa Benedetto XVI aveva delineato in modo incisivo questo intreccio dei due registri: «Deserti esteriori si moltiplicano nel mondo perché i deserti interiori sono diventati così ampi. I tesori della terra non sono più al servizio della coltivazione del giardino di Dio, nel quale tutti possono vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione».