Agorà

Scenari. Neoliberismo, quali basi per la critica?

Luigino Bruni martedì 8 giugno 2021

Il cosiddetto Vangelo di Marcione, andato smarrito, è stato recentemente ricostruito quasi interamente sulla base delle citazioni del suo testo che si trovano nei libri degli autori che lo hanno duramente criticato nei primi secoli cristiani. Autore fortunato, Marcione, “salvato” dai suoi molti critici. Un’operazione analoga non la si potrebbe fare con il capitalismo. Se, infatti, qualche storico futuro volesse capire che cosa fosse il capitalismo sulla base dei soli testi dei suoi molti critici, farebbe una gran fatica; e se riuscisse a mettere assieme le citazioni dei suoi detrattori ne uscirebbe un ritratto molto diverso dalla persona ritratta, perché spesso i critici hanno prima creato un capitalismo-fantoccio e poi hanno avuto gioco facile nel criticarlo. Qualcosa di analogo è l’operazione fatta da Mauro Gallegati nel suo ultimo saggio rispetto al neoliberismo e al mercato. Il mercato rende liberi. E altre bugie del neoliberismo( Luiss University Press, pagine 126, euro 16,00). Un saggio vivace, brillante, a tratti spiritoso, con alcune belle pagine; ma se un lettore volesse capire perché il mercato non rende liberi, giunto alla fine del libro resterebbe frustrato. Gallegati non sembra proporre un mondo ipoteticamente più libero perché senza mercati, né ci spiega perché l’esistenza dei mercati ridurrebbe la nostra libertà (una tesi veramente ardua da dimostrare, che neanche i più severi critici dell’economia di mercato hanno tentato). Anzi, di mercati non si parla proprio, né di quelli reali né della teoria economica contemporanea dei mercati e del mercato. Inoltre, il famigerato neoliberismo è una sorta di animale mitologico, di cui molti parlano nelle fiabe ma nessuno ha mai visto. Infatti, pur essendo il protagonista del saggio di Gallegati, nel libro non troviamo nessuna definizione di neoliberismo (né del liberismo tout court), che viene assunto come un concetto primitivo non meritevole di definizione in quanto, per l’autore, ovvio ed auto-evidente. E invece, purtroppo, non è così. Forse una specie di proto-definizione la potremmo trovare nell’introduzione: «L’economia neo-liberista ha, in una delle sue forme più estreme, una raccomandazione di politica economica assai semplice: lasciar fare al mercato e che lo Stato si occupi dei più fragili – come scriveva Marshall, di “orfani e vedove”». Non stupisce che Gallegati per definire il neoliberismo citi anche A. Marshall, un autore di fine Ottocento, che di “neo” ha davvero poco. Una tale definizione poteva averla scritta F. Bastiat, a metà Ottocento, o magari D. Ricardo nel 1815, e quindi la scuola di Manchester. Dove sia il “neo” di questo liberismo è davvero difficile da dire. Se poi prendiamo questa definizione per buona e andiamo a guardare come funziona davvero la politica economica della Germania, della Francia, del Giappone, della Ue, per non parlare della Cina, ci accorgiamo che di questi popoli che lasciano tutti ai mercati tranne le vedove e gli orfani non ce n’è neppure l’ombra. La politica economica vera, non quella immaginata, è fatta di molti interventi pubblici e di pochi mercati “puri”. Dove invece esiste un vero imperialismo del business in tutto il pianeta è nella teoria e prassi del management, e quindi degli incentivi e della meritocrazia, ma di queste cose Gallegati non parla nel suo libro, anche perché la dittatura dell’ideologia-religione neomanageriale non è certo nata né da Pareto né da Samuelson, ma dagli ingegneri e dagli aziendalisti, non dalle università dove si insegna l’economia matematica ma nelle business school. Perché leggendo il breve saggio il neoliberismo viene associato qualche volta addirittura ad Adam Smith e alla sua “mano invisibile” (concetto fondamentale in Smith, banalizzato da Gallegati), altre volte a Walras e alla teoria dell’Equilibrio economico generale degli anni ’50 del Novecento, qualche altra volta al principio di Pareto, o al sistema di prezzi dei mercati e al concetto di equilibrio, o persino nell’uso della matematica. Peccato che nessuno di questi autori e concetti siano mai stati neoliberisti. Ci sono sempre stati economisti non-neoclassici che hanno usato linguaggio altamente matematico (per citarne uno vicino a noi basti pensare a Georgescu-Roegen), come ci sono stati economisti classici alternativi alla Political Economy inglese entusiasti della fisica newtoniana (come Antonio Genovesi, che tradusse in italiano un libro di fisica newtoniana e che usò categorie di quella fisica per la propria antropologia ed economia). Né Gallegati ci offre strumenti per approfondire queste sue tesi estreme, perché non ama citare le fonti degli autori e delle tesi che evoca. E quando ci dona qualche citazione puntuale finisce sovente fuori strada – come quando afferma che sarebbe stato Pantaleoni a liberare «l’economia dalla palude letteraria», quando lo stesso Pantaleoni, in più occasioni, affermò che con l’arrivo del suo amico Pareto, lui sì matematico, si rese conto che la sua economia non-matematica era destinata al declino (Pantaloeni era laureato in legge, e di matematica sapeva davvero molto poco, e ne era ben cosciente) – vedi la sua recensione al Cours d’économie politique di Pareto, del 1897. Ma la cosa più bizzarra di questo testo è che sembra essere scritto negli anni Sessanta del secolo scorso. L’economia criticata è di fatto ancorata all’economia neoclassica che si insegnava in quegli anni, inclusi i riferimenti culturali di quel tempo, quando citare Popper, Gödel e la teoria della complessità era sufficiente per criticare, a priori, qualsiasi teoria strutturata. È totalmente assente la rivoluzione della Teoria dei giochi, che ha completamente cambiato il modo di insegnare e pensare l’economia neoclassica. Nessun riferimento all’economia comportamentale e sperimentale, che da cinquant’anni ha messo in crisi molti di quegli assiomi del paradigma neoclassico che per Gallegati sono ancora al centro dell’economia. Di quale economia parla questo saggio? Il mainstream che critica in quale fiume si trova? Siamo da decenni al centro di una grande rivoluzione del modo di fare e di intendere il mestiere dell’economista. Certo, ci sono ancora economisti ancorati ai vecchi dogmi e al vecchissimo homo oeconomicus, ma la maggior parte degli economisti oggi non si ritroverebbe assolutamente dentro l’immagine di economista mainstream delineata dall’economista di Ancona. Scrivere un libro critico allora per chi? A chi sarebbe rivolto? Forse a chi non conoscendo la teoria economica si lascia affascinare dalle tesi estreme dell’autore? O ai pochi colleghi ancora innamorati dell’economia degli anni Sessanta? Se oggi un bravo e onesto economista con meno di quarant’anni leggesse questo saggio, se riuscisse ad arrivare fino in fondo e magari capirlo, avrebbe la netta sensazione che Gallegati parli di una scienza che non esiste più, o che se esiste da qualche parte non è certo la parte più viva e generativa dell’Economics di oggi. La scienza economica mainstream, anche solo quella criticata da Gallegati, è frutto di oltre duecento anni di lavoro, è un edificio costruito spesso da architetti ed ingegneri a volte non particolarmente simpatici ma spesso molto bravi, qualche volta degli autentici geni. Per criticarla prima occorre non banalizzarla, prenderla molto sul serio. Il capitalismo può e deve essere criticato, ma ci sono critiche ideologiche e troppo veloci che non fanno altro che rafforzarlo. Poi, da collega docente di economia, mi permetto un suggerimento. Insinuare nel pubblico e tra i giovani che un mondo senza mercati sarebbe più libero, non aiuta né la cultura generale del nostro paese, che di mercati e di libertà ne conosce davvero poco, né aiuta la scienza economica a progredire, perché per quanto possa e debba migliorare sul piano degli assunti etici e filosofici, l’economia avrà sempre a che fare con quel brano di “libertà dei moderni” che si chiama mercato. Concludo questa recensione critica, ma spero onesta, con la bella ultima pagina del saggio di Gallegati, che sembra andare in una direzione non diversa da quella auspicata in questa nota: «C’è da aspettarsi che un ruolo sempre maggiore verrà ricoperto dagli approcci comportamentali che si basano su studi empirici… Il futuro dell’economia sarà quello di una “scienza sociale” complessa empiricamente fondata».