Agorà

DIBATTITO. Civiltà oltre lo scontro

Gianfranco Ravasi giovedì 29 marzo 2012
Il vocabolo «cultura» è divenuto ai nostri giorni una sorta di parola-chiave che apre le serrature più diverse. Quando il termine fu coniato, nel Settecento tedesco (Cultur, divenuto poi Kultur), il concetto sotteso era chiaro e circoscritto: esso abbracciava l’orizzonte intellettuale alto, l’aristocrazia del pensiero, dell’arte, dell’umanesimo. Da decenni, invece, questa categoria si è «democratizzata», ha allargato i suoi confini, ha assunto caratteri antropologici più generali, sulla scia della nota definizione creata nel 1982 dall’Unesco, tant’è vero che si adotta ormai l’aggettivo «trasversale» per indicare la molteplicità di ambiti ed esperienze umane che essa «attraversa». È in questa luce che si comprendono le riserve avanzate dal sociologo tedesco Niklas Luhmann, convinto che il termine «cultura» sia «il peggiore concetto mai formulato», e a lui farà eco il collega americano Clifford Geertz quando affermerà che «esso è destituito di ogni capacità euristica». Eppure, questa genericità o, se si vuole, «generalismo» ci riporta alla concezione classica allorché in vigore erano altri termini sinonimici molto significativi: pensiamo al greco paideia, al latino humanitas, o al nostro «civiltà» (preferito, ad esempio, da Pio XII). È in questa prospettiva più aperta che la parola «cultura» è stata accolta con convinzione dal Concilio Vaticano II che, sulla scia del magistero di Paolo VI, la fa risuonare ben 91 volte nei suoi documenti. Al concetto di «cultura» che ha sollecitato infinite riflessioni e precisazioni, si deve associare quello di «acculturazione» o «inculturazione», che un saggio dell’American Anthropologist del 1935 così delineava: «Si tratta di tutti quei fenomeni che hanno luogo quando tra gruppi di individui con culture diverse intercorrono per lungo tempo dei contatti primari, provocando una trasformazione nei modelli culturali di un gruppo o di entrambi i gruppi».
Tendenzialmente il termine volse verso un’accezione negativa: la cultura egemone non si piega a un’osmosi, ma cerca di imporre il suo marchio a quella più debole, creando uno shock degenerativo e una vera e propria forma di colonialismo. Se si vuole essere meno astratti, si pensi all’ideologia eurocentrica che ha imposto non solo la sua «eredità epistemologica», ma anche il suo modello pratico ed economico al «sistema mondo», rivelandosi spesso in Africa e in Asia come l’interfaccia del colonialismo. In questo processo anche il cristianesimo fu trascinato a diventare una delle componenti acculturanti. Si comprende, così, il fenomeno di reazione costituito dai movimenti «revivalisti» o da forme di etnocentrismo, nazionalismo, indigenismo, fenomeno così vigoroso da aver spinto non pochi osservatori a variare la terminologia da «globalizzazione» in «glocalizzazione». È con questo antefatto che si spiega perché la Chiesa contemporanea abbia preferito evitare il termine «acculturazione» sostituendolo con «inculturazione» per descrivere l’opera di evangelizzazione. Il vocabolo «inculturazione» si è, così, connotato soprattutto a livello teologico come segno di compenetrazione tra cristianesimo e culture in un confronto fecondo, gloriosamente attestato dall’incontro tra la teologia cristiana dei primi secoli e la poderosa eredità classica greco-romana. Fu proprio in quel Settecento tedesco, nel quale – come si è detto sopra – si era coniato il termine Cultur/Kultur, che si iniziò anche a parlare di «culture» al plurale, gettando così le basi per riconoscere e comprendere quel fenomeno che ora è definito come «multiculturalità». Ad aprire questa via, che superava il perimetro eurocentrico e intellettualistico e si inoltrava verso nuovi e più vasti orizzonti, era stato Johann Gottfried Herder con le sue Idee sulla filosofia della storia dell’umanità (1784-91), lui che tra l’altro si era già dedicato nel 1782 allo Spirito della poesia ebraica. L’idea, però, balenava ancora nel pensiero di Vico, Montesquieu e Voltaire che riconoscevano nelle evoluzioni e involuzioni storiche, negli stessi condizionamenti ambientali, nell’incipiente incontro tra i popoli, al seguito delle varie scoperte, nelle prime osmosi ideali, sociali ed economiche, l’emergere di un pluralismo culturale. Certo, questo approccio si innestava all’interno di una dialettica antica, quella che – con qualche semplificazione – vedeva incrociarsi etnocentrismo e interculturalità. È stata costante, infatti, l’oscillazione tra questi due estremi e noi ne siamo ancor oggi testimoni. L’etnocentrismo si esaspera in ambiti politici o religiosi di stampo integralistico, aggrappati fieramente alla convinzione del primato assoluto della propria civiltà, in una scala di gradazioni che giungono fino al deprezzamento di altre culture classificate come «primitive» o «barbare».
Lapidaria era l’affermazione di Tito Livio nelle sue Storie: «Guerra esiste e sempre esisterà tra i barbari e tutti i greci». Questo atteggiamento è riproposto ai nostri giorni sotto la formula dello «scontro di civiltà», codificata nell’ormai famoso saggio del 1996 del politologo Samuel Huntington, scomparso nel 2008, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. In questo testo erano elencate 8 culture (occidentale, confuciana, giapponese, islamica, hindu, slavo-ortodossa, latino-americana e africana), enfatizzandone le differenze, così da far scattare nell’Occidente un segnale d’allarme per l’autodifesa del proprio tesoro di valori, assediato da modelli alternativi e dalle «sfide delle società non-occidentali». Significativa in questa visione era l’intuizione che, sotto la superficie dei fenomeni politici, economici, militari, si aveva uno zoccolo duro e profondo di matrice culturale e religiosa. Certo è, però, che, se si adotta il paradigma dello «scontro delle civiltà», si entra nella spirale di una guerra infinita, come già aveva intuito Tito Livio. Ai nostri giorni tale modello ha fortuna in alcuni ambienti, soprattutto quando si affronta il rapporto tra Occidente e islam, e può essere adattato a manifesto teorico per giustificare operazioni politico-militari di «prevenzione», mentre in passato avallava interventi di colonizzazione o colonialismo (già i Romani erano in questo maestri). La prospettiva più corretta sia umanisticamente sia teologicamente è, invece, quella dell’interculturalità, che è un ben differente approccio alla «multiculturalità». Esso si basa sul riconoscimento della diversità come una fioritura necessaria e preziosa della radice comune «adamica», senza però perdere la propria specificità. Si propone, allora, l’attenzione, lo studio, il dialogo con civiltà prima ignorate o remote, ma che ora si affacciano prepotentemente su una ribalta culturale finora occupata dall’Occidente (si pensi, oltre all’islam, all’India e alla Cina), un affacciarsi che è favorito non solo dall’attuale globalizzazione, ma anche da mezzi di comunicazione capaci di varcare ogni frontiera (la rete informatica ne è il simbolo capitale).