Agorà

Treviso. Canova, la scultura fra marmi e pasticcerie

Maurizio Cecchetti venerdì 27 maggio 2022

Un gesso di Canova, "Cavallo morente" esposto al Museo Bailo a Treviso

L’aneddoto, messo in circolo da un frate domenicano dell’epoca, era di quelli atti a formare il mito dell’enfant prodige: nelle sue Memorie trevigiane del 1803 frate Domenico Maria Federici racconta che appena dodicenne, trovandosi a una cena a casa di nobili, l’adolescente Antonio Canova, Tonin, come lo chiama affettuosamente, si trovò in cucina mentre veniva preparato il dessert. Poiché mancava la classica figurina che si solito occupa il centro della tavola, l’adolescente testimoniò le sue precoci doti di scultore plasmando un Leone di burro che per la sua pregevole fattura incantò tutti i commensali. E quando il nobile padrone di casa chiese chi ne fosse l’artefice, gli venne risposto: «Tonin, Tonin Canova ». L’interessato, usciti i due tomi delle Memorie trevigiane, ormai all’apice di una fama internazionale, si affrettò a smentire l’aneddoto che stava per diventare leggenda. Forse pensò che qualcuno, vedendo i suoi marmi di un bianco quasi latteo (non quello «che più bianco non si può», come recitava il celebre slogan di un detersivo per lavatrici, che oltre vent’anni fa emerse dai marmi dell’Ermitage per colpa di improvvidi restauratori), ecco, forse temeva il grande scultore trevigiano che qualcuno potesse dire che la sua scultura era simile a panna montata. Una tale accusa avrebbe fatto felice forse il sommo pasticcere del barocco, Gian Lorenzo Bernini, perché i suoi marmi trasudano ancora vita, passioni, piaceri che invogliano alla degustazione. Ma Canova era troppo tragico per una tale ironia.

Quell’aneddoto inventato presenta però affinità con la biografia di un altro celebre trevigiano (però con sangue romagnolo nelle vene) che viene evocato in varie parti del catalogo stampato da Antiga edizioni a corredo della mostra con cui il Museo Bailo si presenta, assai rinnovato dopo un radicale intervento di recupero, celebrando Canova «gloria trevigiana » (fino al 25 settembre) e lo fa immergendolo in un’atmosfera fra neoclassico e romantico col corredo di opere della collezione proposte come «Ottocento svelato» in un percorso che da Appiani arriva al Gruppo di famiglia di Hayez.

Antonio Canova, "Perseo trionfante" esposto al Museo Bailo a Treviso - .

Canova è al centro di un nutrito gruppo di iniziative nel Bel Paese, per il bicentenario della morte avvenuta il 13 ottobre 1822. Ma qui a Treviso il convitato di pietra, per dir così, a cui mi riferivo evocando le affinità con l’arte del fornaio e del pasticcere, altri non è che il grandissimo Arturo Martini di cui il Museo conserva un’ampia collezione di opere più o meno giovanili. Ora, noi sappiamo dai colloqui di Martini con Gino Scarpa, che egli legava la sua vocazione plastica all’esperienza che fece da bambino quando il padre fornaio cuoceva per le fiere di paese piccoli dolci di pane fatti con gli stampini che ancora oggi si usano nelle pasticcerie artigianali. L’aneddoto dev’essere vero perché raccontato da Martini stesso, ma bisogna dire che si sposa bene con la memoria apocrifa del frate domenicano. Il fatto è che mentre le sculture di Canova evocano al nostro sguardo ricordi di classicità, di mitologie varie, ma anche una vena “di finzione” come certi involucri tirati a lucido con i volumi, le masse, le superfici polite che ricordano l’antico senza esserlo (Sedlmayr aveva intuito questa vena già nelle stanze settecentesche degli specchi, in quella mise en abyme che svuota spazi e realtà facendole sembrare macchine ludiche, un po’ come qualche decennio fa il postmoderno), così le sculture del giovane Martini, disposte in altre sale del museo, insieme agli splendidi quadri e disegni di Gino Rossi, sono ben lontane da Canova (come del resto anche il Martini successivo, quello di Novecento e Valori Plastici).

Le due glorie però sono qui unite dal luogo di nascita, ma bisogna dire che entrambi gli scultori si sono presto allontanati dalla terra d’origine e Canova, come scrive Fabrizio Malachin, ha una relazione tutto sommato di superficie con la città veneta: attraverso il richiamo al mito, ma soprattutto con la nomina a cittadino onorario nel 1816. Diciamo che torna a essere trevigiano dopo la morte. Nel 1823 l’Ateneo locale celebra lo scultore e nel 1837, il fratellastro, Giambattista Sartori, dona all’istituzione un volume monumentale che raccoglie le incisioni dello scultore (libro esposto per questa occasione e di cui Antiga produce anche un catalogo specifico). Nondimeno, Treviso, nella biblioteca, custodisce anche la sua corrispondenza, da cui emerge un po’ di tutto ciò che riguarda la sua vita d’artista e le sue relazioni con le committenze e le istituzioni, anche quelle internazionali (francesi in particolare, con tutto quanto riguarda l’esperienza napoleonica), ma altresì con un articolato parterre intellettuale. Inoltre, non va dimenticata la mostra canoviana del 1957, curata da Luigi Coletti, il quale stigmatizzò la nota stroncatura di Longhi del 1946 definendola «un atto di sdegnoso disprezzo ».

Come scrive il soprintendente Fabrizio Magani, il primo centenario della morte cadde nel 1922, anno della Marcia su Roma, e fu strumentalizzato per fascistizzare Canova, ombra che si proiettava ancora nel giudizio durante il secondo dopoguerra. Non sarebbe dunque illecito pensare che Longhi si facesse scaltro portabandiera di una critica ideologicamente settaria. A completamento di questa mostra- riapertura del Museo Bailo, sono espose 30 grandi fotografie delle sculture di Canova eseguite da Fabio Zonta, una «mostra nella mostra», come sottolinea lo staff del museo stesso, che agiscono come forma analogica e interpretativa della sua scultura.