Wilkens, la star Nba che credeva nel sorriso di Dio

La storia del leggendario giocatore e coach cattolico di basket morto a 88 anni. Trionfò con Seattle e con gli Usa: «La fede decisiva sempre nella mia vita»
November 10, 2025
Wilkens, la star Nba che credeva nel sorriso di Dio
A sinistra, coach Lenny Wilkens (1937-2025), leggenda sia da giocatore che da allenatore /Ansa
Il basket nacque una sera d’inverno del 1891, quando il professor Naismith, con due ceste per la frutta come canestri, lanciò un nuovo gioco che avrebbe conquistato il mondo. Da allora ad oggi, nella storia ultracentenaria di questo sport, solo cinque protagonisti sono riusciti a entrare nel club dei più grandi (la Basketball Hall Of Fame) sia come giocatori che come allenatori: John Wooden, Bill Sharman, Tom Heinsohn, Bill Russell e Lenny Wilkens. E proprio quest’ultimo, a 88 anni, ha terminato la sua esistenza in questa vita lasciando dietro di sé un alone leggendario. Un’icona in campo e fuori, grazie alla Fondazione che porta il suo nome impegnata a sostenere i ragazzi più svantaggiati.
Cattolico, classe 1937, nato e cresciuto a Brooklyn (New York) Wilkens è considerato uno dei playmaker più geniali nella storia della Nba. Ha giocato 15 stagioni nel massimo campionato nordamericano, è stato nove volte All-Star e due volte ha vinto la classifica degli assist, vestendo le maglie di St.Louis, Seattle, Cleveland e Portland. Brillante anche la carriera da allenatore con il record assoluto di 2487 panchine dal 1969 al 2005. L’apice è stato il titolo vinto con i Seattle Supersonics nel 1979, primo e unico nella storia della franchigia cancellata nel 2008 in favore della creazione degli Oklahoma City Thunder. Ma rilevante è anche l’oro olimpico conquistato ad Atlanta nel 1996. Wilkens ha guidato poi anche Cleveland Cavaliers, Atlanta Hawks, Toronto Raptors e New York Knicks con 1.332 vittorie che lo collocano al terzo posto dietro Gregg Popovich e Don Nelson.
E dire che la sua vita all’inizio fu tutt’altro che semplice. Nato da padre afroamericano, Leonard Wilkens Sr., e madre irlandese americana, Henrietta Wilkens, Lenny aveva solo cinque anni quanto suo padre morì a causa di complicazioni dovute a un’ulcera sanguinante, lasciando Henrietta a crescere cinque figli da sola. Aiutare sua madre a provvedere alla famiglia era qualcosa che Lenny prendeva molto sul serio e iniziò a fare lavori saltuari nel quartiere già a nove anni. Tuttavia, trovò il tempo per fare sport mentre idolatrava Jackie Robinson, l’asso dei Brooklyn Dodgers che ruppe la barriera razziale del baseball nel 1947. Wilkens stesso sperimentò la povertà e il razzismo, anche se la devota fede cattolica che Henrietta trasmise ai figli fu decisiva. Frequentarono la chiesa del Santo Rosario, dove Lenny spesso faceva il chierichetto e incontrò padre Thomas Mannion, un giovane sacerdote che sarebbe diventato un mentore, una figura paterna e un modello. Mannion gestiva la squadra di basket giovanile della chiesa per i campionati locali dell’Organizzazione Giovanile Cattolica (CYO) e allenava Wilkens sui fondamenti del gioco.
Qualche anno fa al Northwest Catholic, il sito ufficiale dell’arcidiocesi di Seattle, raccontò: «Mia madre era una cattolica devota. Andava in chiesa tutti i giorni e non ho mai visto nessuno pregare tanto quanto lei. E così dico sempre a tutti: “Sono la testimonianza che la preghiera funziona”, perché siamo cresciuti in un quartiere molto difficile. Eravamo in cinque bambini e mio padre è morto quando ero molto giovane, e certamente la chiesa fu una specie di pilastro». Lenny l’ha sempre considerato un dono: «Ero una persona a cui era stato insegnato che quando ti svegli dici “Buongiorno, Dio”, non “Buon Dio, è mattina”. E non sono uno che va in giro a parlare della mia fede tutto il tempo, ma certamente sento che mi ha aiutato nel mio viaggio per diventare quello che sono».
Quando fu insignito con l’Hall of Fame da giocatore nel 1989 disse: «Dio mi ha sempre sorriso». Una convinzione mai venuta meno: «Guardo a come sono cresciuto, al mio quartiere, a cosa sono stato esposto, e certamente sento che Dio era nella mia vita. Ha reso possibili tutti i miei successi, perché non c'è modo che avrei potuto fare tutto questo da solo». E dalla fede scaturisce anche il messaggio che lascia in eredità: «Non sederti e lamentarti di quale che sia la tua situazione. Cerca di migliorare la situazione. Rendi il mondo un posto migliore di come l’hai trovato».

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