Addio a Nicola Pietrangeli, la grande bellezza del tennis italiano

Aveva 92 anni: vinse due Slam e la Coppa Davis da capitano
December 1, 2025
Addio a Nicola Pietrangeli, la grande bellezza del tennis italiano
Nicola Pietrangeli in azione, nell'ottobre 1961, nella semi finale di Coppa Davis Italia-Usa / Ansa/Olpix
Se c’è stato un Jep Gambardella nel mondo del tennis, quello è stato Nicola Pietrangeli che a 92 anni saluta il suo pubblico come dopo un match e se ne va, per sempre. Aveva occhi azzurri come il cielo limpido di una Roma malinconicamente romantica, appunto stile "La Grande bellezza" di Paolo Sorrentino.
Roma ha abbracciato Pietrangeli quando era un ragazzino dall'italiano incerto, «mi chiamavano "Er Francia" quando giocavo a calcio con le giovanili della Lazio», ricordava andando indietro ai tempi in cui era un “profugo italiano”. Era dovuto fuggire con la famiglia da Tunisi, dove era nato l’11 settembre 1933, per scampare alla guerra civile. Il primo tennista italiano entrato nella Hall Fame, è figlio d'arte, papà Giulio, detto "Monsieur", all'attività di imprenditore affiancava quella di coloniale e gentiluomo dei "gesti bianchi". In casa Pietrangeli si parlava anche il francese e il russo, per via dalle nobili origini di mamma Anna, del casato dei De Yourgaince, esuli anche’essi, fuggiti a loro volta dalla Rivoluzione d'Ottobre. Questo e molto altro, si trovava sfogliando l'album di famiglia dei Pietrangeli. Nicola era rimasto un ragazzo nonostante avesse superato i 90. Un ambasciatore ufficiale del tennis italiano, giunto ad affrontare con il solito sorriso sornione e la battuta pronta in tasca il decennio che lo portava verso i 100 anni. «Se festeggerò il secolo di vita lo considererò semplicemente come il compleanno dei miei 25 anni compiuti per la quarta volta», diceva divertito con quel timbro roco che rimandava a quello dell’amico da dolce vita Marcello Mastroianni. «Me lo dicono in tanti che ho la stessa voce di Mastroianni. E la cosa mi riempie d'orgoglio perché Marcello è stato un grande amico prima che il migliore attore del mondo. Per divertirci ci vestivamo uguali con i suoi vestiti dai colori sgargianti. Ci univa il comune senso della pigrizia». Ma Pietrangeli quella pigrizia la mascherava con un iperattivismo che era una delle sue maggiori risorse. «Ho fatto sempre la metà della metà di ciò che potevo fare. Del resto due sono stati i miei principi fondanti: "Lavorerei volentieri... Purtroppo non ne ho il tempo", l'altro: "Non è importante essere ricchi, ma vivere come se lo si fosse"». Agli inizi era partito per lavorare alla Lacoste. «Mio padre quando lasciammo la Tunisia perse tutto e per farci mangiare accettò un posto da becchino al cimitero dei francesi. Grazie ai suoi trascorsi da tennista, René Lacoste si ricordò di lui e gli diede la rappresentanza per vendere le sue maglie in Italia. In un anno ne piazzò una cifra spaventosa, 280mila. Io volevo emularlo, ma lui mi disse: "Nicola non è mestiere per te". Papà voleva una cosa sola, che giocassi a tennis fino a novant'anni e io ho mantenuto fede alla richiesta paterna». Aveva visto giusto papà Pietrangeli che consigliava a quel figlio vivacissimo e poco incline alla manualità, tranne il tenere una racchetta in mano, una professione con meno problemi. Magari piena di successi e con possibilità di maggiori guadagni. «Il vero problema fu quando scoprii che l'anno dopo che papà aveva perso la rappresentanza, la Lacoste in Italia vendette un milione di magliette. Se solo avesse firmato una carta per cento lire a capo... Con il tennis ai miei tempi ci si divertiva, venivamo ospitati nei migliori alberghi del mondo, ma la fame era tanta e i soldi pochissimi». Tranne i top player anche i tennisti di oggi pare che non se la passino bene. «Ma no. Ora se entri nei primi 120 del mondo e partecipi a 4 tornei dello Slam ti porti a casa sugli 80mila euro a stagione. Se stai tra i primi 60 la cifra raddoppia. Rispetto a me che andavo avanti a panini e coca-cola offerti dall'amico barman Renato dell'Hotel Posta di Cortina, fare questo sport rimane un privilegio ben remunerato, all'interno di un movimento sempre più ricco». E poi dopo anni di attesa del messia azzurro è arrivato Jannik Sinner ad arricchire la bacheca di un tennis italiano fermo alla sua leggenda e agli anni fastosi del suo ex discepolo Adriano Panatta. Sinner ha tutto e di più rispetto ai due illustri antenati, ma forse non ha quel pezzo da repertorio di Pietrangeli che lo scriba del tennis Gianni Clerici definì il «passante di rovescio indecifrabile». Con quel colpo magistrale Pietrangeli divenne il n.1 del mondo della terra rossa. «Clerici era il "poeta del tennis" e in effetti con quel colpo ho vinto due Roland Garros di fila nel 1959 e nel '60 e un Internazionale d'Italia nel 1961 arrivando all'apice. Quando non mi riusciva quel passante, tra me e me sbottavo: ti prego non mi abbandonare pure tu... Comunque, non mi piace parlare di ciò che ho combinato in campo. Se hai fatto qualcosa di buono nella vita, autocelebrarsi trovo sia un segno di debolezza oltre che di senilità precoce». Infatti, nella sua avventurosa biografia C'era una volta il tennis (Rizzoli), scritta con la sua “sorella” Lea Pericoli, si parla pochissimo di tennis. «Non mi piacciono le biografe tecniche. Quella di Andre Agassi? Ma Open l'ha scritto un premio Pulitzer (J. R. Moehringer) per questo non ho voluto leggerlo. Agassi che adesso ci racconta che per giocare si doveva "drogare" non mi interessa proprio. Preferisco rileggere le imprese del campione che è stato». Niente doping ai tempi del doppio magico Orlando Sirola-Nicola Pietrangeli? «Ma che scherziamo? Sirola poi era serissimo, tutto tennis, chitarra e osteria. Il mio doping, come diceva Orlando, era "stare sempre appresso alle principesse"...». Sportivamente parlando, il bel Nicola fece perdere la testa anche al Maraja di Baroda. «Un personaggio incredibile il Maraja. Stravedeva per la nostra Nazionale, così, quando andammo a giocare la Davis in Svezia venne aggregato come "vice ct in pectore". Mi aveva invitato a trovarlo a Baroda, è l'unico viaggio che mi pento di non aver mai fatto».
Mai pentito, invece, di quella trasferta da ct azzurro nel Cile del dittatore Pinochet per la finale di Coppa Davis del 1976. «Ero dispiaciuto e offeso: l'unica volta che abbiamo riportato la Davis in Italia ci siamo dovuti nascondere come dei ladri... Ho vissuto scortato per giorni e mi sono beccato pure del "fascista", io che nell'80 scesi in piazza per protestare contro gli Usa che boicottavano le Olimpiadi di Mosca. E c'è ancora chi è convinto che Panatta e Bertolucci a Santiago giocarono con la maglia rossa per provocare il regime di Pinochet... Adriano in "rosso" aveva vinto Parigi e Roma, altro che provocazione politica». Scaramanzie da tennisti, mentre Pietrangeli era un uomo di fede. «Da vigliacco ho sempre cercato Dio nel momento del bisogno. Anche in campo, confesso che l'ho pregato di farmi vincere, ma anche di far commettere un doppio fallo all'avversario...». Cinismo alla Dino Risi o Mario Monicelli per i quali avrebbe recitato volentieri la parte del “Conte Max” del tennis. Ma c’era anche il Pietrangeli filantropo e molto legato ai progetti solidali della sua grande sorella Lea Pericoli. «Faccio quello che posso. Se una fetta dei 60 milioni di italiani offrisse un euro soltanto ogni mese si potrebbe continuare a costruire alloggi per le famiglie dei bambini malati di cancro ricoverati in ospedale come abbiamo fatto con Lea a Milano o ampliare una scuola in Kenya aperta con 10 alunni e adesso ne ospita più di cento. Questi sono i match più belli che mi piace vincere». Una storia da vincente quella di Pietrangeli che si vantava di quel campo del Foro Italico in cui aveva scritto la storia del tennis italiano e che gli è stato intitolato in vita. Un privilegio da n.1 in pectore, perché tale si è sentito sempre. Un fuoriclasse assoluto del buon vivere e anche dell’ironia. Per una battuta, anche non tennistica, Pietrangeli era disposto a pagare e c’era sempre chi glie la serviva su un piatto d’argento. Come quella volta che Fabio Fognini incontrandolo gli disse sfottendolo: «Ehi Nicola, ma ai tempi tuoi correvi quanto me?». Un attimo di riflessione e quegli occhi azzurri si illuminavano rispondendo con il migliore dei suoi passanti: «No Fabio, io non correvo... Facevo correre gli altri». Applausi per Nicola Pietrangeli, che saluta il suo pubblico e se ne va, per sempre.

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